Una prospettiva domestica dell’Andrea Chénier di Umberto Giordano per la regia di Mario Martone che inaugura la stagione 2017-2018 del Teatro alla Scala di Milano. Recensione.
Tutti, appassionati di lirica e non, sanno cosa sia la Prima della Scala. A sentirne parlare vengono in mente gli smoking, gli abiti da sera scintillanti, il velluto rosso, le personalità politiche, lo sfarzo, le pellicce ma anche le proteste, i megafoni, i petardi, i fischi, le contestazioni. Eppure, esiste tutto un altro aspetto legato alla Prima scaligera, fatto di apparenze meno scintillanti, persone in piedi per strada davanti ai maxi-schermi, nei cinema, nelle proprie case, tutti pronti ad assistere al più grande paradosso del teatro moderno ovvero uno spettacolo che è allo stesso tempo di pochissimi e di tutti: la Prima.
Io, mio malgrado, faccio parte della seconda categoria di spettatori, quelli domestici, e ciò che si sta per leggere è frutto della visione della Prima da una piccola tv, in una piccola stanza. Faccio di tutto per cercare di ricreare le ritualità che accompagnano solitamente le mie serate a teatro: prima che inizi lo spettacolo scarico e leggo la guida all’ascolto, rileggo la trama, i commenti del regista e raccolgo qualche altra informazione. Mi attrezzo come meglio posso per replicare una condizione simile al buio, qualche instagram stories e la diretta ha inizio. Così è come esserci? Non direi. Ma per qualche attimo, alle prime note dell’orchestra, si è attraversati dall’impressione di avere il palco in salotto e che ciò che sta per accadere è uno spettacolo tutto privato, che, quasi in segreto, farà piangere ed emozionare.
E tutti i 2 milioni di telespettatori, me compresa (che registrano l’11% di share), il 7 dicembre scorso su Rai 1 si sono potuti emozionare insieme ai signori da 2.500 euro in prima fila, di fronte al ritorno alla scala dopo più di trent’anni dell’Andrea Chénier, l’opera di Umberto Giordano messa in scena per la prima volta proprio nel teatro milanese nel 1896. Un’opera “verista”, che non fa parte del grande repertorio, di grande difficoltà per l’orchestra ma soprattutto per i cantanti: un rischio che il maestro Riccardo Chailly decide di correre, nella perplessità generale. Quest’ultimo crede molto nell’opera e nel repertorio verista italiano: fu proprio lui l’ultimo a dirigerla alla Scala nel 1983/84, dopo averne inciso per la Decca la storica versione del 1982 con Luciano Pavarotti e Montserrat Caballé. La perizia canora che richiede quest’opera si scontra inevitabilmente con le elevatissime aspettative degli irriducibili “loggionisti”; tutti si chiedono: “Saranno in grado di soddisfarle?”.
“Opera verista” è però un’etichetta che sta stretta allo Chénier, che, come scrive Claudio Toscani nella guida all’ascolto all’opera distribuita ai ragazzi dell’anteprima dedicata ai giovani del 3 dicembre, non è solo “passioni violente”, “facili effetti drammatici” e “particolari truci”. L’elemento del dramma storico, incastonato nella cornice della rivoluzione francese, la profusione di dettagli con cui ognuno dei quattro quadri viene descritto dal librettista Luigi Illica, come pure la ricchezza di dinamiche musicali che si distaccano dal solo e unico “canto di forza”, sono particolari rilevanti, che non sfuggono infatti ai due protagonisti della serata, il maestro Chailly e il regista Mario Martone.
La regia di Martone lascia intatta ogni componente originale: nessuna trasposizione decontestualizzante o slancio interpretativo sull’epoca storica di riferimento, per la gioia dei melomani tradizionalisti. Il periodo inquadrato nell’opera, che vede la nascita e lo sviluppo dei moti rivoluzionari della Francia del Settecento, è reso con dovizia di particolari: i costumi d’epoca (atti a evidenziare la differenza tra il popolo e gli aristocratici), la scenografia (mobili e specchi riccamente decorati, grandi bandiere della Francia, la vera ghigliottina in scena), i riferimenti ai personaggi storici (come la statua di Murat), sono tutti elementi che sottolineano l’interesse di Martone per il sempre troppo sottovalutato aspetto storico di Andrea Chénier.
Così il primo quadro si apre su un palco pieno di mobili d’epoca e grandi specchi (dalla superficie deformante), tra cui, immobili come statue, stanno le decine di servitori dei conti di Coigny. Tra loro il giovane domestico Carlo Gérard (Luca Salsi), uno dei futuri capi della rivoluzione, il quale odia gli aristocratici per i quali lavora ed è stanco della situazione di sottomissione in cui si trova. Solamente Maddalena (Anna Netrebko), la figlia dei Coigny, non può essere vittima di quest’odio: “Quanta dolcezza ne l’alma tetra per te penetra. Anche l’idea muor, tu non muori giammai, tu, l’eterna canzon”, canta tra sé quando entra in scena. A partire da questa relazione si delinea la trama principale dell’opera: Gérard ama Maddalena, la quale ama, invece, il poeta Andrea Chénier (Yusif Eyvazov). Una volta al potere, Gérard farà di tutto per allontanare Chénier da Maddalena, facendolo passare per traditore della rivoluzione. Egli arriverà persino a ricattare la donna amata, chiedendole di concedersi a lui in cambio della vita del poeta. Tuttavia, Maddalena non è Tosca che, solo quattro anni dopo (in scena per la prima volta il 14 gennaio del 1900 al Teatro Costanzi di Roma), nella stessa situazione, si ritroverà a uccidere il proprio aguzzino, poiché immediatamente acconsente al ricatto pur di saperlo vivo. Allo stesso però modo nemmeno Gérard è Scarpia e, di fronte all’accorato appello di lei nell’aria “La mamma morta”, cede, facendo di tutto per mutare la sorte del condannato Chénier.
Il triangolo amoroso non è certo una novità quando Giordano e Illica lavorano all’opera. La modernità, più che nel soggetto, va ricercata nella forma musicale: la musica è un continuo fluire, non si trovano distinzioni tra recitativi e arie, i quattro quadri si alternano senza soluzione di continuità. Martone e Chailly colgono e valorizzano quest’aspetto: il direttore chiede al pubblico di non applaudire tra le scene e il regista costruisce un palco girevole, così che il passaggio dal primo al secondo quadro e dal terzo al quarto avvengono in pochi attimi. Il ritmo dell’opera è così incalzante che quando arriva l’intervallo ci si rende conto di aver appena ascoltato un’ora di musica senza aver mai rivolto lo sguardo altrove. Qualcuno dalla platea twitta: “Sembra un film”.
Grande merito della creazione di questo potente incantesimo va proprio ai tre cantanti protagonisti, che devono sostenere interamente su di sé il peso di una delle serate più importanti del panorama operistico contemporaneo: non c’è nessuno “ostacolo” registico alla costruzione dei personaggi, interamente affidata alla sapiente bacchetta del maestro Chailly, che diventa a tutti gli effetti il vero regista della serata. Il duro lavoro di mesi con i cantanti (da maggio, dice Eyvazov in un’intervista ) prende forma nelle impeccabili performance.
I dubbi dei più critici sul canto di Eyvazov, secondo molti sul palco grazie a sua moglie Anna, si dissolvono già al primo applauso che “scappa” dalle mani dei presenti (nonostante l’avvertimento del direttore) dopo il suo “Un dì all’azzurro spazio”. Se i primi piani televisivi tradiscono una giustificata tensione e, sfortunatamente per lui, accentuano le non brillanti capacità attoriche, la prova vocale supera l’esame dell’accanito loggionista, così come era stato per la Netrebko nella Giovanna d’Arco. Quest’ultima, brava attrice oltre che cantante, in grado così di sopperire anche alle carenze recitative del marito, si vede di nuovo a trionfare alla Scala, entrando di diritto nella top 5 (o almeno 10) delle migliori “La mamma morta” della storia di quest’opera. Infine, la base del triangolo, il baritono Luca Salsi, anche lui per la prima volta alla Scala, fronteggia degnamente le due grandi voci accanto a lui, portando in scena un Gérard furente di rabbia politica e innamorato, riuscendo a unire i due aspetti in modo convincente.
Cala la ghigliottina e cala il sipario: 11 minuti di applausi, per tutti, su un tappeto di fiori e coriandoli piovuti dall’alto. Come dopo una partita importante, si ha difficoltà a spegnere il televisore, rassegnarsi che sia finita e abbandonare l’emozione che ci ha cullato per più di due ore. La diretta Rai continua, si insinua nel retropalco a caccia di interviste: alle spalle della conduttrice Milly Carlucci c’è una grande tavola imbandita e tutti sono pronti, a ragione, a festeggiare. Dissolvenza. Nero. Titoli del tg.
Flavia Forestieri
Direttore Riccardo Chailly
Regia Mario Martone
Scene Margherita Palli
Costumi Ursula Patzak
Luci Pasquale Mari
Coreografa Daniela Schiavone
CAST
Andrea Chénier Yusif Eyvazov
Maddalena di Coigny Anna Netrebko
Carlo Gérard Luca Salsi
La mulatta Bersi Annalisa Stroppa
La Contessa di Coigny Mariana Pentcheva
Madelon Judit Kutasi
Roucher Gabriele Sagona
Il romanziero, Pietro Fléville, pensionato del Re Costantino Finucci
Fouquier Tinville, accusatore pubblico Gianluca Breda
Il sanculotto Mathieu, detto “populus” Francesco Verna
Un “Incredibile” Carlo Bosi
L’Abate, poeta Manuel Pierattelli
Schmidt, carceriere a San Lazzaro Romano Dal Zovo
l Maestro di Casa/Dumas, presidente del Tribunale di Salute Pubblica Riccardo Fassi