Manifesto è andato in scena al Teatro Arena del Sole di Bologna a chiusura della programmazione del Festival 20 30 – Catastrofe. Recensione e Appunti
Un Manifesto in scena
Si scrive un manifesto quando è in atto una rivoluzione e cioè quando, guardando allo stato attuale delle cose, il corpo si gonfia e si restringe in uno spasimo rivendicativo e, in un fiotto di idee turbolente, prende a elencare che cosa dovrebbe essere e non è e che cosa sarebbe sacrosanto che fosse. In una fila di parole ci si dice capaci di sostenere il futuro, di intravedere una possibilità e di poter essere, con un fiato solo, garanti di tutte le opportunità.
Proprio Manifesto è il titolo dello spettacolo collettivo realizzato dal gruppo Avanguardie guidato da Kepler-452, da Dominio Pubblico, da quattro operatrici teatrali di Modena, da Direction Under 30 del Teatro Sociale Gualtieri e dai Visionari del Teatro Faraggiana di Novara, presentato in chiusura del Festival 20 30 2017 a Bologna. Ad accomunare questi gruppi è il progetto, bisogna dire pioneristico, che da qualche anno prova a passare un compito complesso come la direzione artistica nelle mani di giovani non ancora trentenni.
Il Festival 20 30 ha tre anni ed è di Bologna come chi l’ha ideato. Nel 2014, quattro compagnie teatrali del territorio hanno presentato uno spettacolo, ciascuno incentrato su che cosa oggi significhi stare tra i venti e i trent’anni, e tenuto quattro laboratori con gruppi di ragazzi del territorio, anch’essi con uno spettacolo finale. Otto ritratti di teatro con giovani.
L’anno dopo sono arrivate le Avanguardie, persone che non hanno compiuto trent’anni ma che hanno condiviso la direzione artistica del festival insieme a Kepler-452 e che, in quest’ultima edizione, l’hanno preso in mano fino a portarlo sul palcoscenico lasciando a Nicola Borghesi (quello che se l’era inventato) e a Tiziano Panici (che a Roma guida Dominio Pubblico, evoluzione del progetto nato insieme a Luca Ricci e Fabio Morgan) il beneficio di avere avuto un’idea e di averla diretta.
Protagonisti militanti che, anziché una scenografia, sul palco ci mettono l’anima nel momento in cui ha imparato a parlare. A partire dal ragionamento collettivo innescato dal tentativo di fare rete, gli autori ordinano le idee in tre articoli, ciascuno dei quali evoca una sosta arrabbiata e intransigente di fronte a tre perdute condizioni teatrali. Anzitutto la capacità di contemplare, di fermarsi e restituire il pensiero alla creazione; poi, il diritto di dire “non ho capito un cazzo” quando l’intento artistico diventa intraducibile e, per terzo, l’impiego del tempo come denaro, riappropriandosi di se stessi in scena senza scialacquarlo, per esprimere in parole tutta la voglia e tutta la necessità.
Le loro pance urlano cose giuste, come succede sotto ai palchi dei concerti, vogliono restituire al teatro, con più rabbia e più intenzione di chi li precede, una dignità sociale e un continuo ricambio di generazioni che non si vedano invecchiare. E lo fanno con la lingua delle sensazioni, privi dell’artificio di una drammaturgia già ragionata, prevista, col corpo impegnato nella tensione che va dai pugni stretti ai passi di danza.
Mai che si rinneghino perdendo l’identità, il nome, la storia e il futuro. Si muovono nel vuoto delle sale teatrali, riempiendolo di domande non risposte, sole responsabili delle rughe permesse ai loro volti. Si è intrecciata una rete operativa che prende dal teatro e restituisce alla collettività, dirigendo, dialogando, debuttando. Da aspiranti professionisti riescono nella spettacolarizzazione del loro messaggio, sfruttando il dispositivo scenico come cassa di risonanza emotiva in grado di vibrare immediata sui coetanei. Sono liberi, sono sfrontati, hanno imparato l’arte della contemplazione e cominciano dai metri quadri del palcoscenico finché i passi non andranno a perdersi nel mondo per trovarsi un giorno chissà dove.
Sfide, contesti, responsabilità
Il cuore di ogni operazione critica sta però nella capacità di porre in crisi le proprie stesse premesse. Nel giorno successivo allo spettacolo – che è stato costretto ad aggiungere una replica per tentare (con non completo successo) di non tener fuori il pubblico – si è tenuta una lunga giornata di confronto, intitolata Appunti per un Manifesto. Nella stessa sala che ha ospitato la kermesse, l’Oratorio San Filippo Neri (di proprietà della Fondazione Del Monte che dall’inizio sostiene 20 30) si sono riunite le istituzioni che offrono sostegno all’esperienza bolognese, una lista di operatori locali e nazionali, studiosi e critici. Ma soprattutto è stato dato spazio ai membri dei gruppi che hanno realizzato Manifesto e il gruppo della Konsulta del Festival Trasparenze di Modena. Il possibile modello dell’intervista collettiva si è trasformato in un’occasione di riflettere sull’urgenza e sull’immaginario.
Un botta e risposta tra Gerardo Guccini (ordinario dell’Università di Bologna) e Lorenzo Donati (critico, ricercatore e formatore del gruppo Altre Velocità) ha poi creato un “campo di forze” attorno a questo complesso fenomeno, portando ordine e disordine egualmente virtuosi.
Alla base del “teatro dei gruppi” degli anni Settanta c’era la militanza politica, un attivismo che nel teatro aveva potuto rivendicare “l’esigenza di un’identità generazionale”. Questo movimento non si basa invece su una affermazione ideologica, anzi la nega in forza di una spinta generazionale; se l’identità di questi gruppi è ancora riconoscibile in una fascia anagrafica è forse perché il sistema del teatro in Italia istituzionalizza una divisione di questo genere, appesantendo con la retorica del “giovane” ogni esperimento innovativo.
Ancor prima che un grido generazionale, un agire collettivo è dunque la locuzione che meglio identifica questo movimento di giovani direzioni artistiche, da mesi alla ricerca di strategie di emersione, per le quali la dimensione collettiva può rappresentare non uno strumento che ritagli aree d’azione protette e sempre più specifiche, ma una forza che affermi forme di identità professionale e creativa in grado di esistere a prescindere da una data di nascita. E la vera novità – oltre che uno smarcamento da ogni ideologia – sta nel fatto che questo non è un movimento artistico, che mira alla creazione di linguaggi espressivi, ma un movimento organizzatore, un logos che prova a reinventare una grammatica.
Dice Guccini che il teatro ha la possibilità di farsi “vuoto”: oggi ha «smarrito lo statuto di necessità sociale, non è più un luogo necessario di riunione della collettività». Allora proprio in un vuoto pare possibile dare nomi liberi alla materia che arriverà a riempirlo; e lo status generazionale che ancora identifica questo movimento può forse essere visto come espressione di un’alterità, principio base di ogni identità.
Ma insieme con un’identità si definiscono anche le responsabilità a essa legate. Ed è su questo che pare insistere l’intervento di Lorenzo Donati, secondo cui le direzioni «under 30 stanno cercando e cominciando a cambiare i meccanismi stessi di produzione, di fruizione, di scrittura attraverso i quali il teatro è vissuto». In effetti, le sfide di un manifesto si attuano innanzitutto nella definizione di contesti e funzioni: rivendicare del teatro l’opportunità di divenire un luogo in cui, da programma, «sostare e contemplare» scopre il fianco al rischio di fare di esso una fortezza solida per proteggersi da un mondo troppo difficile, che potrebbe e dovrebbe essere cambiato dall’interno, nel vivo della pratica, senza necessariamente cambiarne la funzione, ma acquisendo strumenti di intervento per un suo innesto nell’era contemporanea. «Il teatro – chiude Donati – non dovrebbe essere soltanto quel luogo dove possiamo essere qualcosa per un momento della nostra esistenza per poi, una volta usciti, dimenticarci i nostri desideri».
Allora anche l’Articolo 1 assegna una utility di grande responsabilità al teatro, quella di offrire “un posto nel mondo”, ma che in un simile contesto di azione dovrebbe essere onorata dal continuo impegno a non circoscrivere o proteggere una funzione identitaria specifica, ma piuttosto a preservarne l’incommensurabilità, la natura caotica, la tendenza all’imprevisto. Solo così si può forse aggirare il rischio di ritrovare, nell’opportunità di un vuoto da riempire, il pericoloso atto di costruzione di un rifugio dove troppo spesso, ultimamente, albergano deluse speranze di riconoscimento o un’indulgenza obbligata nei confronti di propositi sconfitti. E la bruciante urgenza di questo progetto ha tutti i presupposti per offrire una virtuosa resistenza.
Sergio Lo Gatto e Francesca Pierri
MANIFESTO
ideazione e regia Nicola Borghesi e Tiziano Panici
spazio e luci Enrico Baraldi
in scena Davide Petrillo, Marina Taddia, Cristina Mastrangelo, Micaela De Angeli, Giacomo Tamburini, Lucia Fontanelli, Marco Obino, Martina Pozielli, Matteo Traini, Francesca Benedetti, Caterina Occulto, Alin Cristofori, Gemma Cossidente, Elena Ciciani, Claudia Faraone, Miranda Manchisi, Caterina Gambetta, Gaia Cafaggi
ai gruppi di direzione artistica under 30 da tutta Italia
una produzione Kepler-452/ Festival 20 30
con il sostegno di Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna
in collaborazione con Mismaonda
e Ert – Emilia Romagna Teatro
con il patrocinio di Teatro di Roma