A Prato, in prima nazionale, Roberto Latini dirige Valentina Banci e Fulvio Cauteruccio in Quartett di Heiner Müller. Recensione
«Un salotto, prima della Rivoluzione Francese», o piuttosto «un bunker, dopo la Terza Guerra Mondiale». Furono essenzialmente ambigue, se non addirittura contraddittorie, le note relative all’ambientazione che Heiner Müller antepose a Quartett, oscillanti tra la memoria storica di una furia popolana e borghese, e gli incubi – più che mai vividi nel 1980, anno di stesura del dramma – di un nuovo, imminente conflitto. Ad accomunare le due soluzioni, apparentemente antitetiche, è l’abisso sul quale gli spazi si dovrebbero affacciare: una vertigine di violenza e paura, di silente terrore o esplosivo furore. Il freddo jeu de massacre che quelle pareti imbrigliano è riflesso dell’orrore che si manifesta all’esterno, e contemporaneamente espressione di una lotta cerebrale, compressa sotto la pelle ma avvertibile nella voce dell’uomo e della donna reclusi nella stanza. Abbandonati alla propria solitudine, i due non possono fare altro che ammazzare il tempo, la noia, se stessi: interrompere la successione interminabile degli istanti e con essa azzerare la Storia, fino a sancire – senza ghigliottine, né bombe – l’inizio di un presente cristallizzato. Poco importano i nomi e i titoli nobiliari: nei metri quadri a disposizione, essere la marchesa di Merteuil e il visconte di Valmont non garantisce alcuna salvezza dalle parole, dalle ossessioni, dalle paure.
È nel piccolo Teatro Fabbrichino che Roberto Latini arbitra, in prima nazionale, la partita a scacchi tra due amanti elaborata dal drammaturgo tedesco a partire da Le relazioni pericolose: l’unico riferimento alla Francia di fine Ancien Régime sono però le maschere arabescate, dalla foggia settecentesca, consegnate agli spettatori nel foyer della sala pratese. Indossarle lungo il corridoio che conduce allo spazio scenico costituisce solo in prima istanza un’immersione nell’atmosfera rococò del romanzo epistolare di Choderlos de Laclos (1782): perché l’estetica a cui Latini guarda, con la complicità delle scene di Luca Baldini, è squisitamente mid-century. A dominare al centro dell’ambiente è una lunga tavola, frapposta a due pannelli ricoperti da carta da parati vintage e illuminata da lampadari di modernariato; ai suoi lati siedono, stanchi e distratti, due supereroi non più giovani. Wonder Woman ha il volto di Valentina Banci e l’espressione sconsolata di chi aspetta da troppo tempo che accada qualcosa. Superman ha il corpo di Fulvio Cauteruccio e il toupet di chi già troppe volte ha salvato il mondo. Invitato ad accomodarsi nel soggiorno di una qualsiasi abitazione della provincia americana, il pubblico – disposto lungo due pareti opposte della sala – è adesso l’invitato a un austero banchetto, e al contempo parte integrante del tessuto drammaturgico: spalla silenziosa di un duetto di voci affilate come lame, contribuisce a tratteggiare sulla scena il gruppo di anime colte da Müller nella loro scandalosa nudità.
Nella regia di Latini tutto è infatti significante, latore di una realtà ulteriore che sopravanza quella immediata delle crinoline e delle ciprie: e i volti celati degli spettatori sono sì immagine di quell’originale letterario che Quartett omaggia e tradisce, ma anche epifenomeno dell’instancabile riflessione sulla maschera come rivelazione e occultamento, come specchio e mise en abyme, che il regista romano sembra condividere proprio con Müller. A poco più di un anno di distanza da Amleto + Die Fortinbrasmaschine, Roberto Latini torna a interrogare la scrittura dell’autore di Eppendorf e a domandare a se stesso il senso della propria arte, in un instancabile redde rationem dell’osmosi tra palco e platea che qui, proprio in virtù della costruzione scenica, è un flusso biunivoco e inarrestabile. Il ricorso all’immaginario degli eroi della DC Comics è così la chiave di volta di un’architettura sofisticata, che amplifica il dispositivo metateatrale sotteso alla drammaturgia in una babele di travestimenti e rivelazioni, di scambi di identità e riappropriazioni. L’innocenza strappata a Cécile de Volanges e a Madame de Tourvel, la passione e il sadismo che legano Valmont e de Mertueil, la sessualità esasperata e ciò nonostante soffocata – mattoni sui quali poggia l’edificio narrativo di Choderlos de Laclos – sembrano un mero pretesto per una coltissima riflessione sulla finzione, sulla verità, sul teatro che di entrambi si nutre.
«Recitare? Che altro si può fare?» è d’altra parte il frequente intercalare con cui de Mertueil si rivolge ora a Valmont, ora allo spettatore: e il lavoro attorale sembra tradurre con vertiginosa coerenza l’aforisma, nel ricorso a una recitazione che si potrebbe definire “fumettistica”. La ricchezza di onomatopee, la gestualità enfatica, la sorprendente commistione di accenti e coloriture di cui Banci e Cauteruccio offrono una virtuosistica prova trasformano il dialogo tra i due in un forsennato e ironico match, che obbliga lo sguardo dell’osservatore a concentrarsi prima sulla rapida smorfia dell’una, poi sul momentaneo vezzo dell’altro. Non c’è coerenza tra voce e parola, tra movenza e frase, e tuttavia ciò che emerge è la verità di esistenze che non hanno bisogno di logiche condivise e lingue comuni per essere comprese: sono sufficienti un palcoscenico e l’inarrestabile gioco delle parti che su di esso ha luogo. In piedi sulla tavola basculante, costretti a una precarietà che ribalta continuamente qualsiasi nozione di alto e basso, di dominante e dominato, i due conducono al parossismo il gioco crudele della seduzione e della rivalsa.
Il desiderio ha sembianze metamorfiche, e il ritmo di un respiro ansimato al microfono: al di sopra del tessuto musicale curato da Gianluca Misiti – che meticcia arie di Puccini con sonorità elettroniche – attori, ruoli e personaggi si sottraggono la voce, si rincorrono, si sfrangiano gli uni negli altri. Wonder Woman cerca gli occhi degli spettatori mentre, facendo proprie le parole di Valmont, seduce Madame de Tourvel; inginocchiata all’estremità opposta della pedana, la casta donna ha adesso le fattezze di Superman e lo sguardo di Fulvio Cauteruccio. E tuttavia si tratta di un equilibrio momentaneo, presto interrotto da quella vita comune – dalla realtà, si vorrebbe quasi dire – che obbliga i due eroi a rivelarsi come Clark Kent e Diana Prince, e a leggere le battute direttamente dal copione. Il funambolico tour de force, di straordinaria profondità concettuale e godibilissima fattura, sembra poter procedere ad libitum, indifferente allo squalo meccanico che con il suo moto circolare attraversa il pavimento. L’ostinata, commovente dedizione alla vita che anima la marchesa e il visconte emerge proprio sul confine dell’abisso, un attimo prima di quel passo incerto – forse voluto – che implicherebbe la caduta nell’oceano e lo spegnersi improvviso delle luci. È in quell’istante, sottratto al tempo e alle guerre, alle rivoluzioni e allo sfacelo dei corpi, che il supereroe e l’eroina, lo spettatore e il critico, possono contemplarsi e riconoscersi: aggrapparsi alle assi del palcoscenico, forse salvarsi.
Alessandro Iachino
Teatro Fabbrichino, Prato – dicembre 2017
QUARTETT
di Heiner Müller
traduzione Saverio Vertone
regia Roberto Latini
musiche Gianluca Misiti
scena Luca Baldini
costumi Anna Maria Clemente
luci Roberto Innocenti
assistente alla regia PierGiuseppe Di Tanno
con Valentina Banci, Fulvio Cauteruccio
produzione Teatro Metastasio di Prato