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Lemons. Spremi il linguaggio per farne il succo

Alla rassegna Trend, dedicata alle scritture teatrali britanniche, abbiamo visto  Lemons, Lemons, Lemons, Lemons di Sam Steiner, regia Alessandro Tedeschi e interpretazione di Elisa Benedetta Marinoni e Loris Fabiani. Recensione

foto Ufficio stampa

Il teatro, come le serie tv, si è innamorato delle distopie? Non è raro ormai essere spettatori di mondi futuribili, più o meno probabili, o di società a noi contemporanee ma che per qualche scherzo dell’evoluzione politica e sociale si ritrovano ad avere a che fare con diritti umani calpestati, ribaltamenti di senso e prospettiva, virus impazziti, uomini e donne costrette a nascondersi in case abbandonate neanche fossimo in una puntata di The Walking Dead. Insomma il punto è il solito: “Che cosa accadrebbe nel ricco Occidente se…?”. Attorno a questo topos drammaturgico, declinato di volta in volta in maniera più audace, ruota gran parte delle fortune e delle disavventure dei personaggi raccontati; è la società a determinare i caratteri e la reazione di questi agli avvenimenti più assurdi che di una civiltà potrebbero far deragliare il percorso.

Al Teatro Belli fino al 17 dicembre è in scena Trend, rassegna che spesso si rivela utilissima per conoscere nuovi autori d’oltremanica, quest’anno da Alan Bennet a Dennis Kelly, da Eugene O’Brien a Nina Segal, fino ad Abi Morgan, Alice Birch, Phil Porter, Charles Dyer, alternando mise en espace, reading e spettacoli affidati a registi sia giovani che esperti. In Lemons, Lemons, Lemons, Lemons di Sam Steiner il gioco è spietato e intelligente, si tratta di una riflessione tagliente sul linguaggio, le sue possibilità di resistenza e involuzione. Il gioco sta proprio nel mettere in scena un testo in cui la parola (e la sua assenza) sia tema e strumento principale dello svolgimento drammaturgico. La regia di Alessandro Tedeschi lavora su un minimalismo radicale: due sedie, un piazzato luci semplicissimo con poche gradazioni di intensità e fortunatamente due attori irresistibili, Elisa Benedetta Marinoni e Loris Fabiani.

Intravediamo qualche segnale con cui la traduzione di Matteo Curtoni e Maura Parolini si è mossa per avvicinare il plot a un’ambientazione italiana, ma la causa scatenante è l’approvazione di una legge liberticida che pone limite al numero di parole che quotidianamente si possono utilizzare. Il punto di vista è quello, totalizzante e claustrofobico, di una giovane coppia: musicista lui, avvocato lei, il primo scende in piazza, organizza proteste, la seconda si lascia attraversare dagli eventi confidando che la legge non passerà. L’esperimento riguarda la tenitura della relazione alle prese con una dieta forzata del linguaggio verbale, le parole giornaliere a cui affidarsi non possono essere superiori a 140 (un evidente riferimento al vecchio limite dei caratteri in Twitter). La drammaturgia procede per salti repentini, tanto che nei primi minuti il pubblico comprende con difficoltà quali siano i momenti cronologici in cui si inscrivono i dialoghi: una serie di flashback e flashforward partiziona il racconto in un puzzle temporale in cui sia passato che futuro convergono al centro, al momento in cui il disegno di legge verrà definitivamente approvato e i due inizieranno a contare giorni, ore e minuti prima di dover razionare l’utilizzo delle parole.

Spariscono articoli, preposizioni, avverbi e aggettivi se non strettamente necessari, soprattutto il discorso comincia a includere il conteggio numerico che si fa misura della quantità di informazioni verbali. I due fidanzati si affidano a piccoli escamotage: “amoti” è la crasi di ti amo, il codice Morse una lenta via d’uscita nel caso in cui finiscano le parole inaspettatamente.
Fabiani e Marinoni riescono non solo a essere sempre credibili, ma anche a gestire proprio quei passaggi più o meno bruschi nei quali i personaggi vengono risucchiati dalle maglie del tempo. Lo fanno con cambiamenti minimi, movimenti centellinati, ché è la parola poi a fare il resto come fosse una precisa danza di ingranaggi umani.

A voler proprio cercare un limite nel lavoro va trovato nel testo, che non riesce a oltrepassare proprio quella membrana dentro la quale osserviamo la coppia come caso paradigmatico. Steiner non si spinge negli abissi sociali e politici, non emerge il panorama nel quale il parlamento ha maturato la propria decisione; non emerge il controllo governativo sulla legge, e non si sa come ci si possa assicurare che i cittadini non oltrepassino il limite quando sono tra le mura domestiche. Ma appunto all’autore tutto questo non interessa, ha invece a cuore la ricaduta sentimentale. E la questione rimane aperta: come dare forma a ciò che di più profondo abbiamo e proviamo senza le nostre parole?

Andrea Pocosgnich

Teatro Belli, Novembre 2017, Roma

LEMONS, LEMONS, LEMONS, LEMONS, LEMONS
DI SAM STEINER
con Loris Fabiani e Elisa Benedetta Marinoni
regia Alessandro Tedeschi
traduzione Matteo Curtoni e Maura Parolini
produzione Bottega Rosenguild

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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