HomeArticoliGrotowski e il caleidoscopio del teatro. Intervista a Thomas Richards

Grotowski e il caleidoscopio del teatro. Intervista a Thomas Richards

Una conversazione con Thomas Richards, direttore artistico del ‘Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards’ e del ‘Focused Research Team in Art as Vehicle’.

Thomas Richards. Foto Workcenter

C’è generosità e passione, nella voce e nelle parole con cui Thomas Richards attraversa gli anni trascorsi a fianco di Jerzy Grotowski: ma soprattutto c’è un altissimo senso di responsabilità nei confronti di un magistero da difendere dalle vulgatae contemporanee, e da diffondere secondo modalità proprie, primigenie. Regista, pedagogo, attore, Richards è anche testimone – e dal 1999 direttore artistico – di un’esperienza fondamentale per la storia del teatro del ventesimo secolo, quella del Workcenter of Jerzy Grotowski fondato dal maestro polacco nel 1986 a Pontedera. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente in occasione dei debutti nazionali, al Teatro della Pergola, di due nuove creazioni del Workcenter, L’heure fugitive e The Underground: A Response to Dostoevsky.

Vorrei iniziare questa conversazione da The Underground: A Response to Dostoevsky, la creazione che il Workcenter presenterà in prima nazionale al Teatro della Pergola il 2 e il 3 novembre. Con quali modalità il Workcenter si è avvicinato ai capolavori del maestro russo?
Quella tra Dostoevskij e la prassi del Workcenter è un’unione molto particolare, anche inaspettata. Viene da una necessità interiore, percepita dai membri del Workcenter; a un certo punto abbiamo letto questo testo di Dostoevskij, Notes from the Underground [Memorie dal sottosuolo, ndr], che ha la forma di un delirio. Leggendolo entriamo nella mente di un uomo che lotta con la propria impossibilità di agire, e l’analisi di Dostoevskij della psiche umana è in un certo senso così vicina alla sensazione che proviamo quando lavoriamo al Workcenter, che ci siamo detti: «Dobbiamo lavorare su questo testo». Ed è cominciato anni fa, così.

The Living Room. Foto Ilaria Costanzo

The Living Room, lo spettacolo che il Workcenter ha presentato pochi giorni fa a Roma, è ormai un cult. Cosa significa rimettere in scena ancora oggi uno spettacolo del 2009? Come è cambiata la risposta del pubblico a questa creazione?
La cosa importante di The Living Room è il modo in cui è cambiato. Il lavoro del Workcenter non mira a creazioni che durano una singola stagione, mira piuttosto a una vita dai sette ai quindici anni. Gli spettacoli sono già progettati in modo che tutti gli artisti abbiano davanti a loro un compito che possa aiutarli a sviluppare le proprie possibilità artistiche e umane, di esperienza dell’atto performativo. Questo è ciò che è successo con The Living Room: è vero che abbiamo cominciato a mostrarlo nel 2009, ma si trattava dell’inizio di un lavoro a lungo termine, di cui adesso si cominciano a vedere i frutti di tanti anni di sviluppo, veramente straordinari. Gli attori sono maturati in questo periodo, e danno un altro spessore, un’altra profondità, vivono processi profondi che possono essere afferrati, sentiti dagli spettatori. È come preparare del vino: si mette il vino in bottiglia, ma ci vogliono degli anni di sviluppo, di trasformazione, di trasmutazione, e infine si ha un prodotto, un risultato che non è quello iniziale. È questa la cosa speciale con The Living Room; con The Underground sarà la stessa cosa. Per noi tutto questo è collegato al tema profondo dell’opera di Dostoevskij, che è la morte, ma non nel senso tragico che siamo soliti vedere sulla scena: piuttosto Dostoevskij ha un modo di riflettere sulla morte che abbiamo trovato molto buffo. Allora abbiamo incluso in questa creazione degli approcci inediti per il nostro lavoro, come la comicità, lo slaspstick, ma anche ciò che contraddistingue la nostra pratica essenziale, l’arte come veicolo.

Proprio la percezione dello spettatore ha assunto nel corso degli anni una progressiva centralità nelle attività del Workcenter, ponendosi a uno degli estremi di quella catena delle arti performative descritta da Grotowski e sulla quale si concentra oggi l’attività di ricerca del gruppo. Con quali modalità la prassi grotowskiana del Workcenter si applica a un soggetto sfuggente e multiforme come “lo spettatore”?
Sì, c’è stata una trasformazione del posto che occupa per noi lo spettatore. All’inizio, quando il lavoro era mirato su ciò che Grotowski chiamava oggettività del rituale, quando cioè lavoravamo sulle Actions – strutture performative basate su canti tradizionali, con linee di azione fissate – c’era soltanto un numero limitato di persone che assistevano alle nostre creazioni. Si chiamavano testimoni perché venivano a testimoniare il lavoro fatto, ma le Actions erano quotidiane: anche se non c’erano spettatori venivano eseguite come una pratica professionale e personale. Per me, un giovane attore di New York, fu uno shock completo capitare nelle mani di questo grande maestro, che ti dice che non ci saranno spettatori. Ma in qualche modo, andando avanti, abbiamo compreso il fatto che non era possibile creare come fossimo in un monastero completamente chiuso.

Foto Workcenter

Facciamo parte del grande campo dell’arte, dobbiamo essere consci di questo: e per essere parte di questa famiglia dobbiamo avere una funzione, dobbiamo servire. Allora piano piano le porte del Workcenter si sono aperte, e anche dopo la morte di Grotowski abbiamo cercato di sperimentare come il lavoro sull’oggettività del rituale – che si concentra sull’interiorità dell’attuante: questa è sempre la chiave, era la chiave in passato ed è la chiave adesso – si muova dalle energie più grezze, ma incredibilmente forti, verso le energie più sottili, luminose; abbiamo cercato di sperimentare come questo processo oggettivo possa compiersi in diverse situazioni performative. In The Living Room, quando eravamo a Roma, tutti gli spettatori hanno portato qualcosa cucinato da loro, abbiamo bevuto caffè insieme… È all’interno di un grande salotto che il lavoro performativo inizia, agli spettatori non è richiesto di partecipare attivamente: ma sono lì, possono mangiare, vedere quel che succede, e poi quando finisce il lavoro performativo comprendiamo fino a che punto esso trasforma la nostra relazione. Gli spettatori possono rimanere lì anche due ore a stare con noi. Questa è una possibilità, ma ce ne sono anche altre. In The Underground abbiamo scelto una modalità frontale, come nel teatro classico. Abbiamo messo gli spettatori nel loro posto abituale, a causa della struttura drammaturgica dell’opera di Dostoevskij, che di fatto è un lungo monologo. Ci siamo confrontati con questo aspetto e abbiamo compreso che dovevamo lasciare lo spettatore in platea. Il nostro eroe sta in scena con i diversi personaggi delle storie che ci racconta, e tuttavia abbiamo scoperto, dentro il monologo, il ruolo del regista. Io, che mi trovo con gli spettatori, in platea, sono a poco a poco attirato sul palco, dentro la struttura, per cercare di confrontarmi con i temi che Dostoevskij ci mette davanti. Ci muoviamo da un teatro che è frontale, e di seguito giungiamo all’oggettività del rituale. Lo spettatore in un momento è pubblico di un teatro “classico”, e in un momento è testimone come nell’arte come veicolo.

Foto Guido Laudani

L’assoluta rilevanza che assume il canto nella prassi dell’art as vehicle costituisce una specificità della pedagogia del Workcenter. Cosa significa per un artista di teatro misurarsi con questa tecnica?
Il canto nel nostro lavoro è sempre stato essenziale, possiamo dire che ne è il centro. Sono canti che provengono dai territori africani e afro-caraibici. Grotowski, dopo la sua grande carriera come regista, ha compiuto ricerche su diverse tradizioni, come quella di Haiti: lì ha trascorso circa sette anni, coinvolto in rituali della tradizione. In queste cerimonie, che si basano molto sul canto, il processo interiore dell’attuante non è vissuto staticamente: in esse il corpo diventa un flusso di impulsi che porta la vita nel canto. Per Grotowski tutto ciò era molto naturale, dato che come regista era uno specialista delle azioni fisiche e della voce. Una parte della mia famiglia viene dai Caraibi, e quando ho incontrato il lavoro di Grotowski ho percepito questi canti caraibici come il ritorno a una casa che non avevo mai conosciuto. Sono cresciuto a New York, educato nelle scuole di Manhattan e all’università, ero completamente tagliato fuori da questo lato che era nascosto dentro di me e che era collegato all’Africa. Allora il canto, nella mia relazione di apprendistato con Grotowski, è stato il fulcro intorno al quale ho percepito che il lavoro poteva crescere. Il canto è diventato la mia specialità, e ancora oggi è centrale come strumento nel nostro lavoro.

The Underground. Foto Ken Reynolds

A quasi vent’anni dalla scomparsa del Maestro, come è cambiato il suo rapporto con l’insegnamento di Jerzy Grotowski?
La relazione che avevo con Grotowski è difficile da spiegare. Probabilmente è stato il più grande maestro di teatro del ventesimo secolo, che si concentrava nel suo atto di trasmissione verso di me con uno sforzo totale. Lavoravo con lui sei giorni alla settimana, dalle dodici alle diciotto ore al giorno. Era veramente una relazione insolita, e io non volevo neanche andare in giro in città il giorno libero, ero così entusiasta del lavoro… È stato come stare accanto a un saggio per tredici anni, e il momento in cui questo saggio muore è sì un momento tragico, ma è anche un momento carico, al quale eravamo preparati. In quel frangente ho sentito veramente tutte le ansie connaturate alla morte di un insegnante così, ma con una libertà e una forza tali da non percepire la paura. Bisogna sempre stare molto attenti a non mischiarsi alle cose mondane, stupide, piccole… Ogni volta che muore un uomo di grandi qualità, un grande maestro, qualcuno dirà «Sono io che porto avanti il lavoro di Grotowski… Io ho studiato con Grotowski»: ma spesso la gente, francamente e tristemente, mente. Questo accadeva già durante la vita di Grotowski, i suoi ultimi anni non li ha dedicati a correggere tutti i malintesi intorno al suo lavoro, sarebbe stato una perdita di tempo… Alla sua morte, Mario Biagini e io siamo diventati eredi anche di tutto il suo patrimonio intellettuale e dei suoi scritti, che abbiamo pubblicato in lingua italiana in quattro volumi, tradotti da Carla Pollastrelli in modo incredibilmente preciso e vivo. Ciò che abbiamo nelle mani è l’heritage di Grotowski, e come eredi affrontiamo anche queste dinamiche. Quando c’è un cadavere nel deserto arrivano gli avvoltoi: e questi avvoltoi trasformano a volte la percezione che si ha di Grotowski, mentre se ne cibano trasformano il suo nome e il modo in cui il mondo conosce e ha accesso al suo patrimonio. Tuttavia dobbiamo trattare tutto questo come un processo naturale, che succede e succederà. La cosa importante è capire che i malintesi ci saranno, e che il nostro compito primario è sviluppare la qualità del lavoro e dare vita a un luogo dove il lavoro esiste davvero. Questa è la cosa essenziale: e da lì dobbiamo cercare di far arrivare alle persone la sua voce, ad esempio con le sue parole nei testi raccolti da noi. È attraverso la pubblicazione dei suoi testi che stiamo intrattenendo in un altro modo la nostra relazione con lui e con il nostro ricordo di lui.

L’Heure Fugitive. Foto Workcenter

Nella sua ormai trentennale storia, il Workcenter ha attraversato varie fasi, dalla nascita di The Bridge nel 1999 allo sviluppo nel 2007 di due percorsi paralleli, il Focused Resarch Team e l’Open Program. Quali nuove sfide attendono il Workcenter oggi?
Con Cécile Richards, uno dei miei più stretti collaboratori che presenterà L’heure fugitive alla Pergola il primo novembre, stavo parlando proprio ieri sera di quale sarà la prossima trasformazione del lavoro. Questo rimane vivo finché noi siamo capaci di vedere e prevedere lo sviluppo necessario di ciascun membro della squadra, e di trovare il modo in cui lo slancio di ognuno verso lo sviluppo umano e artistico sia espresso nelle diverse opere che creiamo. Sul futuro non posso in questo momento accennare a parole, anche se è chiaro che il nostro lavoro sta vivendo un’evoluzione importante. Il processo interiore – Grotowski utilizzava la parola verticalità –  si ha quando l’atto performativo è utilizzato come un trampolino meditativo, nel quale da energie molto dense, come la vitalità e la sensualità, si sale attraverso quello che in diverse tradizioni si chiama “cuore”, fino a toccare i centri di energia che esistono anche sopra il quadro fisico. Adesso, mi limito a dire che nel lavoro con la squadra, in un certo senso, la fonte da cui viene innescato questo processo complesso sta diventando un’altra: si sta aprendo una nuova porta, un modo nuovo di relazionarsi con il lavoro su di sé che ci darà lo slancio verso il futuro. In questo momento ci stiamo anche dedicando a un lavoro mirato sui dettagli dell’attore: mi sto concentrando sulla maestria attoriale di diversi membri della mia squadra, come per esempio Cécile Richards e i due attori principali di The Underground, Benoît Chevelle e Guilherme Kirchheim. Qui c’è il nuovo nel nostro lavoro, il nuovo che si vedrà in The Underground: la struttura è un caleidoscopio aperto, noi entriamo in un mondo comico, cominciamo a ridere, cominciamo anche a essere sedotti da questo lavoro… Poi il caleidoscopio cambia, e siamo in un mondo tragico, e poi attraverso i canti siamo di nuovo nell’oggettività del rituale, e poi si torna verso un tipo di vaudeville, dove è abbracciato anche questo modo di relazionarsi con il pubblico, e poi siamo ancora nel teatro di tradizione, e vediamo che siamo nell’atto di sfidare una concezione: quella per la quale il sacro deve stare lì, la comicità invece deve stare lì, il tragico deve stare lì… Chi dice che un atto scenico frontale non possa essere anche rituale? Chi dice che non possa esserci anche l’oggettività del rituale? Dobbiamo forse tutti toglierci le scarpe? Dobbiamo forse tutti stare seduti in terra? No: è in questa apertura che si vede un impulso nuovo che sta nascendo nel Workcenter.

Alessandro Iachino

WORKCENTER OF JERZY GROTOWSKI AND THOMAS RICHARDS

Teatro della Pergola – 1° novembre 2017
L’HEURE FUGITIVE
concepito da e con Cécile Richards
regia Thomas Richards

Teatro della Pergola – 2 e 3 novembre 2017
THE UNDERGROUND: A RESPONSE TO DOSTOEVSKY
regia Thomas Richards
con i membri del Focused Research Team in Art as Vehicle
assistenti alla direzione Cécile Richards e Jessica Losilla-Hébrail

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Alessandro Iachino
Alessandro Iachino
Alessandro Iachino dopo la maturità scientifica si laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Firenze. Dal 2007 lavora stabilmente per fondazioni lirico-sinfoniche e centri di produzione teatrale, occupandosi di promozione e comunicazione. Nel novembre 2014 partecipa al workshop di visione e scrittura critica TeatroeCriticaLAB tenuto da Simone Nebbia e Andrea Pocosgnich nell’ambito della IX edizione di ZOOM Festival, al termine del quale inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica. Ha partecipato inoltre al laboratorio Social Media Strategies for Drama Review, diretto da Andrea Porcheddu e Anna Pérez Pagès per Biennale College ‑ Teatro 2015, e ha collaborato con Roberta Ferraresi alla conduzione del workshop di critica della Biennale College ‑ Teatro 2017. È stato membro della commissione di esperti del progetto (In)Generazione promosso da Fondazione Fabbrica Europa, ed è tutor del progetto Casateatro a cura di Murmuris e Unicoop Firenze.

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