Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Il numero 70 rintraccia il pensiero di Antioco di Ascalona, e l’ipotesi secondo cui la conoscenza del sé corporeo e spirituale potrebbe passare anche attraverso la contemplazione teatrale.
IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – COLLABORATORE DI RICERCA POST DOC DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO CHE COLLEGA LA STORIA DEL PENSIERO AL TEATRO MODERNO E CONTEMPORANEO.
Antioco di Ascalona (I sec. a.C.) è una figura complessa nel panorama della filosofia antica e poco nota agli specialisti. Le fonti pervenute ci consentono di stabilire con sicurezza che egli studiò con Filone di Larissa, scolarca dell’Accademia platonica che, negli anni, aveva a sua volta assunto una direzione sempre più marcatamente scettica con personaggi come Arcesilao, Carneade e Clitomaco. Il suo pensiero non ci è purtroppo noto che tramite rarissimi frammenti e varie testimonianze, ma in particolare mediante Cicerone. Quest’ultimo attribuisce, infatti, ai personaggi di Varrone e Lucullo negli Accademici, o di Pisone nel libro V del De finibus (Sui limiti dei beni e dei mali), alcuni discorsi filosofici sulla conoscenza e sulla morale che sono dichiaratamente ispirati alla filosofia di Antioco. Gli studiosi sono naturalmente cauti nell’esaminare questi testi, poiché molti aspetti del pensiero antiocheo potrebbero essere stati distorti dalla parafrasi di Cicerone, e tuttavia li considerano in larga parte attendibili.
Tra le dottrine certamente più interessanti che Antioco avrebbe sostenuto rientra quella che Pisone espone nel cap. 16.44-45 del libro V del De finibus. Si riferisce qui che il sommo bene per l’essere umano consiste nel seguire il precetto rivelato dall’Apollo delfico di “conoscere se stessi”, che è interpretato come l’imperativo di conoscere sia il proprio corpo che la propria anima e di vivere conformemente alle facoltà che scaturiscono da queste due parti della nostra natura. Le successive considerazioni del discorso di Pisone/Antioco chiariscono dove tale conoscenza debba essere indirizzata. Per quel che riguarda il corpo, ogni essere umano deve cercare di tenerlo curato e in salute, perché questa è la condizione “naturale” che tutti sanno essere razionalmente desiderabile e da perseguire. Quanto all’anima, Pisone/Antioco riferisce, invece, che l’umanità conosce se stessa mediante la contemplazione e che essa è un’attività a cui siamo spontaneamente (o per natura) indirizzati. Essa costituisce, peraltro, anche l’area di azione più eccellente tra quelle umanamente disponibili, perché superiore alla stessa attività politica.
L’aspetto che ci interessa in questa sede è una delle motivazioni che viene fornita per provare che la conoscenza della propria anima ha luogo mediante la contemplazione, che a sua volta è un’attività spontanea e desiderabile di per se stessa, vale a dire che non costituisce un mezzo per altri fini. Pisone/Antioco sostiene che la conferma empirica più evidente è il comportamento dei bambini, i quali sopportano fame, sete, freddo e botte pur di conoscere qualcosa. E tra le attività che costoro sogliono praticare con piacere viene inclusa la visione di «cortei, giochi pubblici e simili spettacoli». Anche se Pisone/Antioco non li menziona in modo diretto, è chiaramente implicito in questo esempio il fatto che i bambini amino guardare il lavoro degli attori, senza i quali le esibizioni spettacolari dal vivo non potrebbero aver luogo. L’ipotesi è confermata dal fatto che la prospettiva antiochea della preminenza dell’attività teoretica o contemplativa si ispira in maniera esplicita all’ideale di Aristotele, che – lo si è visto in più di un appuntamento – stabiliva nel Protrettico che il desiderio di sapere degli esseri umani si manifesta anche nell’andare a visionare gli spettacoli di teatro.
Da questo accenno di Pisone/Antioco si può ricavare un potenziale argomento a favore del carattere conoscitivo dell’arte degli attori. Se i bambini che godono nel guardare i loro spettacoli riescono indirettamente a conoscere la loro anima, allora ne segue che il teatro contribuisce nelle prime fasi della nostra vita alla conoscenza di noi stessi. L’umanità si avvia ad obbedire al precetto divino di Apollo delfico attraverso l’arte umana, tutta umana, cui gli attori si dedicano ogni giorno.
Questo argomento solleva, inoltre, un’interessante questione. Antioco avrebbe forse ammesso, in una o più opere perdute, che anche gli adulti conoscono se stessi guardando gli attori all’opera, se non addirittura che ricavano una maggiore conoscenza della propria natura, ora che il loro intelletto si è pienamente sviluppato? Temo che il filosofo avrebbe risposto negativamente. Subito dopo aver descritto il comportamento dei bambini, infatti, Pisone/Antioco dice gli esseri umani sommi si sentiranno attratti da fenomeni più importanti, che il seguito del libro V del De finibus identificherà con gli avvenimenti celesti e i fenomeni occulti che hanno luogo sulla terra. Da ciò segue, molto probabilmente, che gli spettacoli degli attori sono “fenomeni meno importanti” e che l’adulto che ha raggiunto il suo massimo sviluppo razionale li avrà da tempo abbandonati, o almeno avrà attribuito loro minore attenzione, per dedicarsi agli oggetti più eminenti che il mondo ha da offrire.
Con tale osservazione anche Antioco è riportato dalla prospettiva teorica all’ormai nota tendenza dei filosofi antichi a squalificare l’attività degli attori rispetto ad altre arti o altri fenomeni. Da un punto di vista storico, però, si può aggiungere che egli recupera un interesse verso il teatro che era andato apparentemente perduto (la mancanza di testi obbliga sempre alla cautela) nella riflessione degli Accademici o dei Platonici a lui precedenti. Se escludiamo l’eccezione lampante di Crantore, pare che dopo Platone personaggi come Senocrate, Speusippo, Arcesilao, Carneade e Clitomaco non avessero più parlato degli attori o del teatro. Antioco costituisce, dunque, storicamente, una figura che ravviva un interesse estetico che nel Platonismo si era finora affievolito, mentre era rimasto vivo in movimenti filosofici rivali come l’Aristotelismo, l’Epicureismo e lo Stoicismo.
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Bisogna dunque penetrare nella natura e considerare a fondo le sue esigenze: altrimenti non possiamo conoscere noi stessi. Questo precetto, poiché era troppo grande per sembrar emanato da un uomo, fu attribuito ad un dio. Quindi è Apollo Pitico che ci ordina di conoscere noi stessi. Ora, questa conoscenza di noi stessi è una sola: conoscere l’essenza del nostro corpo e della nostra anima e seguire la vita che fruisce di tali doti. Ma poiché tale inclinazione dell’anima consistette inizialmente nell’avere ciò che ho detto nella forma più perfetta della natura, bisogna riconoscere che, una volta conseguito l’oggetto dell’inclinazione, la natura si ferma a ciò come ad un termine ultimo, ed esso è il sommo bene; certamente questo deve necessariamente essere ricercato nella sua interezza per sua iniziativa e per se stesso, poiché è già stato dimostrato prima che anche le sue singole parti sono da ricercarsi di per sé (Pisone in Cicerone, Sui limiti dei beni e dei mali, libro V, cap. 16, § 44)
Finora la nostra trattazione è proceduta in modo da derivare tutta dalla prima raccomandazione di natura. Ora però atteniamoci ad un altro genere di ragionamento, per dimostrare che in questo campo ci muoviamo per nostra esclusiva iniziativa non solo perché amiamo noi stessi ma perché ogni parte della natura sia nel corpo che nell’anima ha la sua propria facoltà. E per cominciare dal corpo, vedi come gli uomini cercano di occultare le eventuali alterazioni o mutilazioni o minorazioni delle membra? al punto che si sforzano perfino e si dànno da fare per vedere se riescono a far sì che un difetto del corpo o non appaia o si veda il meno possibile? e sopportano anche molti dolori per curarsi, allo scopo che le loro membra riprendano l’aspetto naturale, anche se il loro uso è destinato non solo a non migliorare ma anzi a peggiorare? Infatti, dato che tutti ritengono di dover ricercare interamente se stessi per natura, e non per altro ma per se stessi, si devono necessariamente ricercare per se stesse anche le varie parti di ciò che nella sua interezza vien ricercato per se stesso (Pisone in Cicerone, Sui limiti dei beni e dei mali, libro V, cap. 17, § 46)
Vediamo ora le parti dell’anima: il loro aspetto è più illustre, e quanto più sono elevate, tanto più chiari indizi della natura presentano. Quindi è così grande l’amore della conoscenza e del sapere innato in noi che la natura umana vi si sente portata – e nessuno ne può dubitare – senza l’attrattiva di alcun profitto. Vediamo come i fanciulli neppur con le percosse si possono distogliere dall’osservazione e dall’attento esame di ogni cosa? come quando ne sono scacciati vi ritornano di corsa? come gioiscono di sapere qualche cosa? come esultano di poterla narrare ad altri? come i cortei, i giochi pubblici e simili spettacoli li tengono fermi e per essi sopportano perfino la fame e la sete? Ma come! non vediamo che chi si diletta degli studi e delle arti non tien conto né della salute né degli interessi famigliari e tutto sopporta, preso dalla conoscenza e dal sapere, e trova un compenso delle gravissime preoccupazioni e travagli nel piacere che coglie dall’imparare? (Pisone in Cicerone, Sui limiti dei beni e dei mali, libro V, cap. 18, § 48)
Questo dunque per lo meno appar chiaro: siamo nati per agire. Ma vi sono vari generi di attività, tanto che se ne annoverano anche di minori offuscati da quelli più importanti; però – a parere mio e di coloro di cui ora stiamo svolgendo la dottrina – le più importanti sono anzitutto l’osservazione e la conoscenza dei fenomeni celesti e di quelli che la natura tiene occulti e restano nascosti ma la ragione può indagare, poi l’amministrazione degli affari pubblici e la scienza di tale amministrazione, infine un modo di ragionare ispirato a prudenza, temperanza, fortezza e giustizia, non meno che le rimanenti virtù ed attività in armonia con le virtù; insomma ciò che con una sola parola chiamiamo in complesso “onestà”: e alla conoscenza e alla pratica dell’onestà siamo condotti già rafforzati, perché ci precede la natura stessa (Pisone in Cicerone, Sui limiti dei beni e dei mali, libro V, cap. 21, § 58)
La scienza fu spesso lodata di per se stessa in modo mirabile sia da Aristotele che da Teofrasto (Pisone in Cicerone, Sui limiti dei beni e dei mali, libro V, cap. 25, § 73)
Ed invero, il desiderio di sapere ogni cosa, di qualunque genere sia, è proprio delle persone curiose; ma il sentirsi attratto dalla contemplazione dei fenomeni più importanti al desiderio del sapere è da ritenersi proprio degli uomini sommi (Pisone in Cicerone, Sui limiti dei beni e dei mali, libro V, cap. 18, § 48)
[Le citazioni sono tratte da Nino Marinone (a cura di), Cicerone: Opere politiche e filosofiche. Vol. II: I termini estremi del bene e del male, Discussioni tuscolane, La natura degli dèi, Torino, UTET, 1955. Gli estratti del discorso di Pisone sono in parte contrassegnati come il fr. 9 delle fonti su Antioco raccolte da Hans Joachim Mette (Hrsg.), Philon von Larissa und Antiochos von Askalon, in «Lustrum», 28-29 (1986-1987), pp. 9-63]
Enrico Piergiacomi
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