Nella stagione shakespeariana del Silvano Toti Globe Theatre di Roma, nel parco di Villa Borghese, un allestimento di Macbeth firmato da Daniele Salvo. Recensione
Ancora prima di registrare qualsiasi invenzione il regista abbia escogitato attorno alla consegna del testo, assistere a uno Shakespeare al Globe Theatre (come, per certi versi, vedere una tragedia a Siracusa) significa entrare in contatto con un’idea di spazio che caratterizza un’idea di teatro e dunque un’idea di spettatore. Il palco elisabettiano era lo spazio della fantasia: praticabile ma nudo; ampio al punto da far risaltare l’attore nei monologhi; spinto architettonicamente fin dentro il parterre dei posti in piedi, oggi usato senza timore come luogo d’ingresso per i personaggi che arrivano da un altrove.
Dalle corpose note di regia di Daniele Salvo, che parlano di «allucinazione, incubo, “fiaba marcita”» emerge il tentativo di riorganizzare lo spazio scenico come un ambiente modulare, che ora ospita il luttuoso tormento dei secoli bui, ora si fa camera privata per le contorsioni esistenziali dei protagonisti lanciate in picchiata verso una bolgia di rimorsi e orrori. Se molte letture della tragedia vedono in Banquo l’alter ego del protagonista, qui la dualità sembrerebbe più impostarsi su Macbeth (Giacinto Palmarini) e Macduff (Gianluigi Fogacci), dove quest’ultimo – in particolare alla notizia del massacro della propria famiglia – compie quella redenzione che all’usurpatore l’autore (per bocca della profezia) non permette.
Nel tentativo di creare una pur suggestiva atmosfera horror che non rinuncia – ma lo fa con la giusta fierezza – a qualche pennellata kitsch come le streghe in tuta aderente e corna à la Maleficient / La bella addormentata nel bosco che compaiono in nicchie di controluce durante ogni assassinio, Salvo non riesce del tutto a elevare il re e la regina Macbeth a figure paradigmatiche, impegnando forse troppe energie nei colpi di teatro.
Accettando anche il tono declamatorio della recitazione e la grandeur di cui pare non si possa fare a meno nella programmazione tragica del Globe e che è stato anche altrove segno distintivo di questo regista che scava nel testo, si soffrono – nelle tre ore abbondanti di spettacolo – certe “pose sceniche” degli attori, quasi rubate alle Lezioni di declamazione e d’arte teatrale di Morrocchesi, e il limitato repertorio di gesti con cui il corpo si organizza in posture e i corpi in gruppi di ascolto e controscene.
A infliggere un colpo violento alla buona scorrevolezza di questo impianto è tuttavia l’interpretazione di Lady Macbeth (insieme a Lady Macduff la sola donna oltre alle streghe) offerta da Melania Giglio. Nelle note di regia il personaggio rimanda a una «donna di potere, nevrotica, bulimica, disinvolta», ma la resa è quella di una presenza davvero fuori fase rispetto al resto, sempre diversi decibel sopra ai compagni di scena, avvitata dentro intonazioni forzatamente schizofreniche, a volte insopportabilmente vezzosa nella ricerca di cambi di tono e di ritmo che vorrebbero essere inquietanti e invece – come nel monologo della sonnambula – sortiscono l’effetto contrario, dilatando fino a una scena madre quell’istante di surreale vaneggiamento che dà il via al quinto atto. In questi compiacimenti si perde, purtroppo, l’occasione di riflettere su un’ambientazione quasi totalmente maschile (è bene ricordare la scelta totalizzante del Macbettu di Alessandro Serra) e che però guarda nello specchio mortale della sete di potere trovandovi una natura uterina, generatrice.
Tra le tragedie più cupe e minacciose del Bardo, Macbeth è anche una delle più rappresentate, volta in opera e in musica, tornata di recente anche sullo schermo cinematografico per la regia di Justin Kurzel. Quest’ultimo esperimento riusciva a mettere i mezzi del cinema al servizio dell’immaginazione artistica: con i suoi attori lasciati soli in giganteschi e desolati spazi architettonici; con una cinepresa stampata sul primo piano dei volti, impegnati a frugarsi dentro alla ricerca di moti minuscoli da tradurre su (splendide) espressioni facciali, è di fatto quanto di più lontano il teatro elisabettiano potesse sognare o forse anche desiderare, ma esprime una visione realmente contemporanea, pur senza stravolgere l’ambientazione. Daniele Salvo tenta un Macbeth al contempo epico e drammatico, rispettando quasi alla lettera il testo (di cui tuttavia non viene accreditata la traduzione) e mescolando scene d’insieme e tirate di monologo in una gestione fluida della scena, capace di muovere agilmente i corpi sotto piazzati sinistri e sbuffi di macchina del fumo. Dell’incompleto successo dell’operazione è certo anche complice una direzione generale del Globe, che – va detto, con gran successo di pubblico – sembra voler rispettare un’impostazione “classica” o “tradizionale”. La domanda è sempre la stessa: nel rispetto di quale modello? Liberandosi da questi luoghi comuni terminologici che non dicono nulla sulla storia delle estetiche teatrali, nel votarsi all’immaginazione come principio fondamentale si potrebbe invece restituire al teatro elisabettiano quella capacità di portare fino alla fruizione di oggi la potenza che ha tenuto in vita un testo per cinquecento anni.
Sergio Lo Gatto
Silvano Toti Globe Theatre, Roma – settembre 2017
MACBETH
di William Shakespeare
regia Daniele Salvo
interpreti Luigi Bignone, Marco Bonadei, Simone Ciampi, Elio D’Alessandro, Martino Duane, Gianluigi Fogacci, Giulia Galiani, Melania Giglio, Massimiliano Giovannetti, Francesco Iaia, Francesca Mària, Matteo Milani, Marta Nuti, Giacinto Palmarini, Silvia Pietta, Mauro Santopietro, Carlo Valli, Stefano Di Lauro, Claudio Di Paola, Matteo Magazzù, Sebastiano Spada
scene Fabiana Di Marco
costumi Daniele Gelsi
musiche Marco Podda
luci Umile Vainieri
fonica Franco Patimo
assistente alla regia Alessandro Gorgoni
maestro d’armi, combattimenti Antonio Bertusi
assistenti volontari Alessandro Guerra, Sebastiano Spada