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Bob Wilson e Heiner Müller. Disabitare Amleto

Hamletmachine di Bob Wilson torna in scena con un nuovo allestimento dopo la versione originale del 1986. Il testo di Heiner Müller in scena al Teatro Astra di Vicenza per il 70° Ciclo di Spettacoli Classici. Recensione

bob wilson
Photo Lucie Jansch

Quando l’occhio umano si misura con la visione, il processo di elaborazione dell’immagine si articola per un addensamento, una presa di coscienza che concretizza la sensazione e la rivela tramite l’ultimo passaggio, quello cerebrale. Il filtro attraverso cui ciò accade è la retina, ossia la superficie sensibile che accoglie lo stimolo dell’occhio, lo assimila e ne traduce l’informazione al cervello che disegna i confini al magma, convoglia l’idea in una forma definita. C’è dunque qualcosa di poetico nell’acquisizione dell’immagine, un meccanismo che rende l’uomo indifeso di fronte alla spinta penetrante del reale, un movimento pressoché involontario e precritico, contro cui non vale alcuna resistenza se non la più delicata e fragile: chiudere le palpebre.
Il teatro dell’immagine è per questo motivo una sorta di conferma del processo visivo, perché la composizione degli elementi sulla scena è concepita come una riproduzione di quel primo impatto sul piano sensibile, cui poi il seguente assorbimento potrà fornire un progressivo intendimento razionale. Sembra questo lo sviluppo artistico sul quale fa conto uno dei maggiori esponenti della regia mondiale, Bob Wilson, che ha fatto riemergere dalla storia Hamletmachine di Heiner Müller, allestito di nuovo dopo trent’anni con gli attori dell’Accademia Nazionale d’arte drammatica Silvio D’Amico (ma anche allora fu concepito con gli allievi della New York University) e in scena al Teatro Astra di Vicenza per il 70° Ciclo di Spettacoli Classici.

bob wilson
Photo Lucie Jansch

Durante un viaggio americano verso la fine degli anni Settanta lo scrittore tedesco iniziò a ideare un testo che disabitasse il classico per eccellenza – Amleto appunto – di caratteri standardizzati, privandolo della trama universalmente nota e condensando complessità nei risvolti dei personaggi shakespeariani, ingranaggi servili della “macchina di Amleto”. L’incontro e l’amicizia con Bob Wilson, già allora grande innovatore dell’arte concepita come equilibrio di diverse molecole creative, fu determinante per la messa in opera che vide la luce soltanto nel 1986 a New York, grazie proprio alla regia dell’artista texano che proprio in quegli anni stava sperimentando la tensione visiva e performativa dello spettacolo totale a contatto con la tragedia classica (si ricordano Medea e Alcesti, ma anche poi il lavoro dedicato a Kafka sul concetto di tempo della rappresentazione). E non fu difficile anticiparne il successo planetario, giacché l’idea destrutturante dell’uno si mostrò presto speculare all’eclettismo concettuale dell’altro, sviluppando un connubio esplosivo di concetti e apparizioni.

bob wilson
Photo Lucie Jansch

In un tessuto sonoro composto da un piano rado e dolente, talvolta sinistro, l’impianto scenico si staglia in profondità dove la luce di fondale cambia continuamente ambiente; non ci sono personaggi ma figure, silhouette che non interpretano il testo di Müller, come da indicazione dello stesso autore, ma sembrano accogliere riflessi delle parole sul proprio corpo, abitanti di uno spazio prospettico e irreale, non nero, non grigio, ma annerito o ingrigito. Ogni figura entra in successione, una alla volta, svolgendo un’azione atta a corrispondere un’idea immaginifica, priva pertanto di naturalismo, così che la disposizione dei corpi sembra rispondere principalmente a una struttura di derivazione scenografica; le parole di Müller vi stanno come sospese, escono dalle bocche ma con esse perdono quasi ogni legame, si disperdono per lo spazio, prendono vita autonoma da chi le abbia pronunciate, si arrestano mute come si posa la neve – “Snow on her lips” – sul silenzio di Ofelia, le sue labbra chiuse, le mani da sé stessa insanguinate, il dipinto barocco di un delitto privo di tempo.

bob wilson
Photo Lucie Jansch

Ofelia dunque ispessisce fin dal testo di Müller la propria presenza nell’opera, assurge a eroina tragica là dove poteva dirsene esclusivamente vittima. Proprio in tal modo riabilita anche la figura di Amleto, il cui destino rintocca nel dramma accresciuto di un nuovo senso di ribellione, segno di una comunione con Ofelia visibile forse per la prima volta ma che si articola diversamente per l’uno, che la sente come vita e accensione, e per l’altra, per cui è invece morte e sgomento, odio e dispersione. È in virtù di questa Ofelia forse che si avverte una sensazione asfittica lungo l’intero arco di spettacolo, in cui la proiezione in video della versione originale si inserisce come un proprio personale postmodernismo inteso non come categoria epocale ma come modus operandi, per dirla con una illuminante definizione di Umberto Eco: ora più di allora l’idea di una prigione esistenziale, mentale, subordina la concretezza di una materia narrativa esplosa appena prima della messa in scena, in un tempo remoto in cui narrare poteva apparire possibile, in cui una vicenda poteva dirsi esemplare perché compiuta, definita dalla virtù degli uomini a compitarla e farne – appunto – racconto. Ma non più, sembra dire Bob Wilson dalle parole complici di Heiner Müller, non più il tempo ha questo tempo e la vita può ridursi in rappresentazione.

Simone Nebbia

Teatro Astra, Vicenza – settembre 2017

HAMLETMACHINE
ideazione, regia, luci e scene Robert Wilson
testo Heiner Müller
con Liliana Bottone, Grazia Capraro, Irene Ciani, Gabriele Cicirello, Renato Civello, Francesco Cotroneo, Angelo Galdi, Alice Generali, Adalgisa Manfrida, Paolo Marconi, Eugenio Mastrandrea, Michele Ragno, Camilla Tagliaferri, Luca Vassos, Barbara Venturato
co-regia Ann-Christin Rommen
con Giovanni Firpo
adattamento luci John Torres
collaboratore alle scene Marie De Testa
costumi Micol Notarianni
make-up and hair Manu Halligan
drammaturgia originale Wolfgang Wiens
musiche Jerry Leiber e Mike Stoller
sound design originale Scott Lehrer
sound design e fonica Antonio Neto
con Dario Felli
operatore luci Aliberto Sagretti
direttore di scena Camilla Piccioni
direttore tecnico Giuliana Renzi
assistente personale di RW Gellrich Nelson
delegato di produzione Virginia Forlani

Progetto di Change Performing Arts commissionato da Festival di Spoleto 60 per l’Accademia Nazionale d’arte drammatica Silvio D’Amico
Nuova versione basata sulla produzione originale del 7 maggio 1986 alla New York University, New York

A questo indirizzo il blog curato dall’autore con Silvia Ferrari, dedicato agli sguardi under 30 sulla rassegna

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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