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La signorina Else di Federico Tiezzi. Il corpo, il sogno

Al Pistoia TEATRO Festival, in anteprima, la Compagnia Lombardi-Tiezzi ha presentato La signorina Else, dal racconto di Arthur Schnitzler. Recensione

Foto di L. Manfrini

«Non mi dispiacerebbe sposarmi in America, ma non con un americano. Oppure mi sposo un americano, ma poi ci stabiliamo in Europa. Villa in Riviera. Scalinata di marmo che scende nel mare. Io, nuda, sdraiata sul marmo». Alberga ancora la confusa e allegra inquietudine dell’adolescenza nella rêverie con cui Arthur Schnitzler introduce, fin dalle prime pagine della novella, il coacervo di desideri che animano fraülein Else: eppure la frivola indecisione sul possibile coniuge lascia improvviso spazio, nel sogno a occhi aperti, all’emergere di una vanità adulta, forse in parte ancora inconsapevole ma già disinibita. Quel corpo ostentato, al contempo intoccabile e lascivo, è motore dell’accadimento scenico e fulcro prospettico degli sguardi nella versione de La signorina Else diretta da Federico Tiezzi, presentata in anteprima durante il Pistoia TEATRO Festival: ma se nella fantasticheria della giovane donna esso, esposto sul candore del marmo, è immagine fisica di una brama erotica, ora la sua ricezione emotiva è capovolta dal freddo tavolo su cui giace inerte. Immobili, coperte da un lenzuolo bianco dal quale, come una sindone, emergono macchie blu, le spoglie di Else accolgono il pubblico e mutano adesso qualsiasi istinto carnale nella mera contemplazione di un feretro.

Già nel celebre racconto, d’altra parte, eros e thanatos si confondono e sovrappongono nella figura della giovane, colta dal genio dell’autore austriaco nel suo essere in equilibrio precario tra scoperta della sessualità e compiaciuti istinti suicidi, tra fantasie di una trasgressione affidata al fumo dell’hashish e le minacce di una morte da ottenere con un’overdose di Veronal. La vicenda dell’adolescente spinta dalla madre a sedurre un facoltoso amico di famiglia, in cambio dei trentamila fiorini necessari a salvare il padre dall’arresto, è allestita all’interno del Teatro Anatomico dello Spedale del Ceppo: lo spazio ha consentito al regista aretino di concretizzare un’altalena di pulsioni in un serrato corpo a corpo tra gli attori, il pubblico, e l’architettura di stucchi e marmi. La piccola sala settecentesca – luogo deputato per secoli a un’osservazione per essenza debitrice della violenta dissezione delle membra – non è qui soltanto un’inconsueta platea per un ristretto gruppo di persone, bensì un elemento scenografico chiamato ad amplificare sensi e nuclei tematici sottesi all’opera. Lo sguardo dei venti spettatori assiepati sui banchi in muratura che circondano il tavolo marmoreo si fa così evidente traduzione dell’attitudine censoria della borghesia viennese: superficiale e conformista, agitata da una pruderie che cela una malcelata ossessione per il sesso, la società di metà anni Venti denunciata da Schnitzler si rivela correa della tragedia che conduce Else verso un baratro di vergogna e morte.

Foto di L. Manfrini

La visione ravvicinata del corpo degli interpreti, l’indagine minuziosa delle espressioni e dei gesti che i pochi metri quadri di spazio scenico invitano a mettere in atto è però anche espressione teatrale di quell’analisi di stampo psicoanalitico, di quell’affondo nelle pieghe della coscienza di cui Schnitzler è stato antesignano letterario e che trova nel fulminante monologo interiore de La signorina Else l’esempio principe. Il tavolo su cui giace il corpo di Lucrezia Guidone nei primi istanti della pièce assume così anche la funzione del lettino freudiano, sul quale Else può dare sfogo, in un flusso ininterrotto di parole, all’intreccio di angosce e desideri che la animano. E la drammaturgia di Sandro Lombardi, Fabrizio Sinisi e dello stesso Tiezzi moltiplica l’afflato psicologico della prosa di Schnitzler inserendo, come osservatore e interlocutore principale della giovane, quel Dorsday al quale Else è costretta a supplicare un prestito. Seduto nella nicchia prospiciente il tavolo, il Dorsday interpretato da Martino D’Amico indossa piccoli occhiali tondi e stringe tra le mani un taccuino, sul quale distrattamente prende appunti con la tipica attitudine del terapeuta, mentre Else, sdraiata con gli occhi socchiusi, intraprende il racconto della sua drammatica permanenza a San Martino di Castrozza. Come in un sogno da sottoporre alla sfida dell’interpretazione, i singoli oggetti di cui Schnitzler, e con lui Else, sembrano fare menzione distrattamente, acquisiscono nell’apparato scenico firmato da Gregorio Zurla una centralità e una preminenza assolute: la racchetta da tennis, il telegramma della madre, il pianoforte, così come il “divino prato” che ricopre il pavimento dell’anticamera del Teatro Anatomico e che si interrompe poi su una superficie di specchi, conferiscono un’atmosfera misteriosa e segreta alla stanza in cui Else e Dorsday agiscono, in un crescendo onirico che trova il proprio climax nell’apparizione di un gruppo di uomini in frac e testa di coniglio.

Ora accomodati su eleganti sedie in velluto rosso, ora costretti quasi a rincorrersi su una distanza irrisoria, i due si fronteggiano e si sfidano, si attraggono, si offrono l’un l’altra come carnefice e vittima, tra sussurri e improvvisi scoppi di urla che rivaleggiano per musicalità con il clarinetto di Dusan Mamula, il pianoforte di Omar Cecchi e il violoncello di Dagmar Bathmann, chiamati ad accompagnare con le note la partitura vocale. E il risultato di questo lavoro attorale di microscopica perizia, che impone agli interpreti di recitare a pochi centimetri di distanza dal pubblico e di offrire così quasi un close-up cinematografico dei propri volti tesi, è di straordinario livello. Se D’Amico conferisce a Dorsday un’eleganza viscida e melliflua, nella quale l’emergere di un’incontrollabile passione per l’adolescente è affidata alla variazione del timbro vocale, è soprattutto Lucrezia Guidone a costruire una performance di magnetica potenza: commovente nella fissità dello sguardo che rivolge agli astanti, luciferina negli improvvisi scatti d’ira, sognante nei momenti di lirica introspezione, l’attrice tratteggia un delicato ritratto di giovane signora, schiacciata dalle convenzioni, forse anche dai propri inconfessabili impulsi.

Alessandro Iachino

Teatro Anatomico dello Spedale del Ceppo, Pistoia – Pistoia Teatro Festival – giugno 2017

LA SIGNORINA ELSE
di Arthur Schnitzler
traduzione di Sandro Lombardi
drammaturgia di Sandro Lombardi, Fabrizio Sinisi e Federico Tiezzi
regia di Federico Tiezzi
con Lucrezia Guidone e Martino D’Amico
Dagmar Bathmann violoncello
Omar Cecchi pianoforte e percussioni
Dusan Mamula clarinetti

scena Gregorio Zurla
costumi Giovanna Buzzi
luci Gianni Pollini
movimenti coreografici Giorgio Rossi
assistente alla regia Giovanni Scandella
in collaborazione con Scuola di Musica e Danza “Teodulo Mabellini” , Pistoia

produzione Compagnia Lombardi – Tiezzi / Associazione Teatrale Pistoiese Centro di Produzione Teatrale
con il sostegno di Regione Toscana e Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

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Alessandro Iachino
Alessandro Iachino
Alessandro Iachino dopo la maturità scientifica si laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Firenze. Dal 2007 lavora stabilmente per fondazioni lirico-sinfoniche e centri di produzione teatrale, occupandosi di promozione e comunicazione. Nel novembre 2014 partecipa al workshop di visione e scrittura critica TeatroeCriticaLAB tenuto da Simone Nebbia e Andrea Pocosgnich nell’ambito della IX edizione di ZOOM Festival, al termine del quale inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica. Ha partecipato inoltre al laboratorio Social Media Strategies for Drama Review, diretto da Andrea Porcheddu e Anna Pérez Pagès per Biennale College ‑ Teatro 2015, e ha collaborato con Roberta Ferraresi alla conduzione del workshop di critica della Biennale College ‑ Teatro 2017. È stato membro della commissione di esperti del progetto (In)Generazione promosso da Fondazione Fabbrica Europa, ed è tutor del progetto Casateatro a cura di Murmuris e Unicoop Firenze.

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