Oltre la follia e la vergogna, l’Aiace di Linda Dalisi e Matteo Luoni ha esplorato una diversa prospettiva per riscrivere la tragedia di Sofocle.
Come definire Aiace? L’eroe umano e tragico per eccellenza che decide di allontanarsi da un mondo che sembrava stringere in pugno. La morsa però si allenta, i nervi si distendono, le vene rigonfie accolgono ora un flusso di sangue più mite. Sofocle aveva sezionato il suo Aiace, isolandone follia e rabbia, distribuendole nella tragedia come specchio di un tumulto interiore a cui l’uomo da sempre cerca di opporsi. Solo accettandole come parte di sé, la soluzione appariva chiara e inevitabile. Ma la morte in Aiace non è una fine, è solo l’inizio. L’hanno capito bene i due drammaturghi Linda Dalisi e Matteo Luoni che, con un senso di segretezza radicale, sostengono la riscrittura di questo Aiace prodotto da Stabilemobile compagnia Antonio Latella (visto in anteprima a Primavera dei Teatri 2017).
La fine è quindi il punto di svelamento di uno spettacolo mite, fin troppo in alcuni casi, soprattutto quando l’impennata sembrava d’obbligo. Aiace – interpretato dall’attore ivoriano Abraham Kouadio Narcisse – diventa centauro dopo la morte. Odisseo lo guarda da lontano, così come si fa di fronte a un’epifania, una rivelazione. Un essere immortale dunque, come il centauro Chirone, guaritore ferito, padre spirituale dello stesso combattente e di suo cugino Achille. Perché rendere Aiace immortale sublimando il gesto della morte? Perché fare di Odisseo un semplice spettatore?
All’inizio questi aveva detto «la guerra fa schifo, voglio soltanto pace, la guerra è una latrina pubblica e noi siamo merde che galleggiano in superficie». Un buon messaggio, ma oggi la parola “guerra” non tuona più come apocalittica, è solo una nella costellazione di cose disdicevoli di cui ci sdegniamo meccanicamente. E così Odisseo – l’attore Annibale Pavone – ammette ai nostri occhi la sua debolezza, fin da subito quando non capisce il cortocircuito linguistico in cui si esibisce Aiace e chiede: «Voi lo capite? Qualcuno lo capisce?». Ciò non evidenzia solo il problema dell’incomunicabilità, Odisseo è testardo come mosca impazzita su un vetro, risponde alla paura di specchiarsi nella follia con il raziocinio delle misure. Proietta su uno schermo i numeri della sezione aurea – come conferma dell’esistenza di un rapporto tra Dio e l’uomo, tra l’universo e la natura: un’ideale di bellezza e armonia, che per Odisseo è l’unica isola di conforto di fronte l’esibita follia di Aiace.
Odisseo però confonde la poesia con le buone maniere, di contro Tecmessa – l’attrice francese Estelle Franco – schiava e moglie, elogia invece il folle che sa dire l’amore agli innamorati e la verità ai giovani «prigioniero in mezzo alla più libera alla più aperta delle strade. Solidamente incatenato all’infinito crocevia». Aiace sa che per il cambiamento c’è bisogno di una certa dose di follia: si agita, confonde le lingue, e preda della pazzia cui lo sottopone Atena fa strage di una povera mandria. Il momento della follia è una danza, che potrebbe avere il sapore dionisiaco dei ritmi frenetici e forsennati, invece rimane fin troppo introspettiva e confortante.
Anche la scelta registica di Linda Dalisi di dotare i personaggi di proiettori di immagini come veicoli e contenitori di risvolti psicologici, finisce per rendere troppo macchinoso il processo di una tragedia che nel testo ha meno sovrastrutture.
Odisseo non può che parlare con se stesso: «Odisseo ascolta, Odisseo interpreta, Odisseo traduce. Correggere gli errori degli altri senza inventare nulla». Così nel finale quando Aiace invita lui e Tecmessa a tuffarsi nel mare, li sta spingendo a ricordare e rifarsi bambini. La moglie-schiava pensa a quando – ancora donna libera – cercava l’acqua e le forme delle nuvole come via di fuga. Odisseo ricorda i capelli bianchi di sua madre e rivela il bisogno di un centauro che avrebbe potuto insegnargli tutto. È allora che Aiace comincia ad allontanarsi, dietro i veli che finora erano schermo si disvela a poco a poco la figura dell’uomo mezzo animale immortale, il centauro-Aiace ha accettato la follia e la vergogna e artefice della propria metamorfosi evoca i ricordi da bambino: «Dai Achille! Chi si tuffa per primo vince!».
Doriana Legge
Primavera dei Teatri – maggio 2017
Aiace
stabilemobile in collaborazione con l’Asilo – exasilofilangieri.it
drammaturgia Linda Dalisi e Matteo Luoni
regia Linda Dalisi
con Abraham Kouadio Narcisse, Estelle Franco, Annibale Pavone
scene Giuseppe Stellato
costumi Graziella Pepe
suono e musiche Marco Messina
luci Simone De Angelis
movimenti Francesco Manetti
assistente alle scene Domenico Riso
aiuto regia Francesca Giolivo
production Brunella Giolivo
management Michele Mele