Tumore di Lucia Calamaro in scena, dieci anni dopo il suo debutto, al Teatro Morlacchi di Perugia. Recensione.
Nessun fondale a celare le pareti spoglie, a modificare lo spazio nelle geometrie del palco. La luce è espansa e debole, poi si restringe in piccole finestre di un bianco intenso, proiettate obliquamente sull’ombra nera del pavimento.
Sulla scena due soli corpi: quello di Benedetta Cesqui, età imprecisabile, portamento altero, una densità sfiorita che le anima i movimenti del volto, e quello di Monika Mariotti, la fisicità imperiosa contrappuntata dall’uso sincopato della voce e dalla flessibilità, quasi di maschera, nei tratti. Sono, rispettivamente, la Madre e la Dottoressa, alle prese con degenza, diagnosi, operazione e morte di Virginie. Tumore, di Lucia Calamaro, è uno spettacolo “in memoria”, a dircelo già le note di regia: «A Virginie Larre, storica dell’arte, brillante, imbranata e molto comica amica mia, questo requiem».
Inoltre, si tratta di uno spettacolo del 2007 – stupefacente esordio di Calamaro, primo atto del suo lavoro sulla lingua teatrale – che si misura con le scene di dieci anni dopo.
La prossimità fisica tra le attrici e gli spettatori – poche decine di sedie montate sul proscenio, la platea disabitata che si allunga nel buio dietro un divisorio – determina un particolare tipo di intimità e consente un ingresso di privilegio nel cuore di un discorso denso, sovrarticolato, percorso da qualche riverbero a-logico del postmoderno, profondamente sentimentale.
Quella di Tumore è una scrittura che si occupa di un preciso limbo: i luoghi e i tempi del pre-morte. È uno spazio alieno – forse non percorribile dal pensiero che non ne abbia fatto l’esperienza – dove si dissolve l’ambiguità insita nel rapporto terrorizzato tra paziente e medico, dove la diagnosi continua a esistere oltre l’orrore del momento in cui viene pronunciata e dove, comunque e ancora, il tempo si misura in attese.
A dispetto della retorica cartesiana del melò che descrive il dolore come un pensiero unidirezionato – che consente deviazioni minime e sempre, infine, riconducibili alla composizione di un acquerello di contorno –, il testo di Tumore è dissociato e autoriflessivo. Tiene insieme passato, presente e futuro, si frantuma in molti focus, fa incursione in immaginari diversissimi, espone la sua stessa involuzione e il suo sgretolamento, è incongruo e strappato, come il pensiero che si sforza di gestire il dramma.
Calamaro spezza i codici alla base della nostra comunicazione del trauma, conia un linguaggio specifico per questo disordine, che ne riproduce l’inesorabilità pulsante e che, allo stesso tempo, sa connettere le qualità più sottili e vibratili del pensiero con l’urto dinamico del reale, esasperare la consistenza materica delle cose per separarle dai loro sovra-simboli. E, ancora, la sensibilità semantica ai dettagli – con un procedimento caro all’iperrealismo – produce quell’effetto di evanescenza straniata e di svuotamento che emanano gli oggetti troppo a lungo osservati, troppo minuziosamente rappresentati. «Ciò che faccio e penso sprofonda dentro se stesso: qualsiasi cosa io faccia è una mappa di se stessa» dice ad un certo punto, con il tono tranquillo di chi rileva un dato di fatto, la Madre.
Questo discorso ininterrotto è affidato a due voci ma non polarizzato, raramente dialogico, come se l’accesso a un piano espressivo meno mediato delegittimasse, progressivamente, anche l’esigenza narrativa di costruire personaggi coerenti. Tant’è che sul finale Virginie, finalmente morta e finalmente in scena – non raccontabile, come chiunque e come la memoria («Come si fa a restituire tutta quella cosa che è un essere umano?») – prenderà possesso, per qualche istante, dei corpi di entrambe le donne, dando infine una grottesca dimensione di autonomia e movimento alla propria desolata e inesausta invocazione.
Gli oggetti in scena sono pochissimi, usati con maestria e accuratezza all’interno di un gioco di simboli ed epifanie, così come i corpi – nella loro definizione plastica e statuaria – si mettono al completo servizio della dimensione verbale, senza sovrastarla o de-focalizzarla. Questa semplicità del disegno scenico – aiutata dalle luci di Andrea Berselli, vero strumento di costruzione delle atmosfere nello spazio disadorno del palco – contribuisce a creare, come nell’intenzione di Calamaro, «una zona di transizione sconosciuta», un territorio liminare dove i nessi tra significanti e significati sembrano saltare ma non per questo la superficie diviene meno fenomenica o meno leggibile.
Lo svelamento della dimensione di artificio è il rapido binario che conduce alla conclusione: «Prima di farci applaudire […] mi dai una luce più intima?». Esporre la meta-teatralità è, in qualche modo, anche dichiarare la messa in scena ultimo oggetto tra gli oggetti: una tessitura di parole da opporre al verdetto per ristrutturare una realtà alternativa a quella, decretata, del dolore, un atto di sfilacciata resistenza, una costruzione che, pur riformando i codici, ricade dentro se stessa, nulla di verticale, nulla di ulteriore. «Quanto manca? […] Quello che c’è, è tutto qui»
Dopo il lungo combattimento drammaturgico per un linguaggio, che sia pronunciabile e sincero, degno di tradurre – forse per tentativi, anche solo casualmente – qualcosa dell’indicibile magma del dolore, la resa è terrestre, più spaventosa e più dolce: «Ci vuole silenzio: amoroso, attento, serio. Ma silenzio».
Ilaria Rossini
Teatro Morlacchi, Perugia – maggio 2017
TUMORE. UNO SPETTACOLO DESOLATO
scritto e diretto da Lucia Calamaro
con Benedetta Cesqui, Monica Mariotti
luci Andrea Berselli
una produzione Teatro Stabile dell’Umbria
con il sostegno di Teatro di Roma
in collaborazione con Rialto Sant’Ambrogio