Nozze di sangue. Macbettu. Titu Andronicu. Century. Da Cagliari a Sassari, una riflessione sulla scena sarda contemporanea
Nozze di sangue. Macbeth. Tito Andronico. Tre storie di passione, di potere, di violenza. Tre tragedie bagnate di sangue, scelte da altrettanti registi per adattamenti in sardo. Ma non è solo la lingua l’elemento comune, il riferimento a una Sardegna arcaica attraversa i tre spettacoli, che hanno debuttato sull’isola nei primi mesi del 2017.
È andato in scena ad aprile al Teatro Massimo di Cagliari e poi in replica all’Eliseo di Nuoro, Nozze di sangue, rifacimento di uno spettacolo di repertorio della Cooperativa Teatro di Sardegna, firmato da Serena Sinigaglia, che condivide la scrittura drammaturgica con Marcello Fois. Con qualche cambiamento nel cast, il lavoro – prodotto da Sardegna Teatro – mantiene l’impianto scenico del precedente, uscito nel 2010. Dall’alto pende uno scialle, illuminato, a seconda delle scene, di bianco, rosso e nero, i colori del matrimonio, del sangue e del lutto. Su una pedana inclinata verso la platea un semicerchio di sedie accoglie i personaggi, tutti in scena, tutti partecipi della tragedia. Un lavoro corale, ben calibrato nei gesti e nei dialoghi, e piuttosto comprensibile, perché l’italiano è mescolato – di tanto in tanto – al sardo, scelto in quanto «lingua di terra e di sangue», come si legge nelle note di regia, «lingua che è già storia di faide, di confini difesi e violati, di campi arsi, di coltelli, di parole impronunciabili, di silenzi violenti».
La storia scritta da Garcia Lorca nel 1932 si racconta meglio in lingua sarda che in italiano, secondo la regista, non solo per una maggiore affinità con lo spagnolo ma anche per la similarità di codici di comportamento tra Andalusia dei primi del 900 e Barbagia. D’altra parte c’è un’offesa subita e una vendetta da compiersi, in piena linea con la “giustizia fai da te” cara al codice barbaricino. L’interesse, dunque, oltre che linguistico, è dichiaratamente antropologico. Serena Sinigaglia ritrova nella società barbaricina quella stessa immobilità della terra andalusa, l’obbedienza ostinata a leggi mai scritte. E cuce addosso agli attori quei caratteri così ben tratteggiati dal drammaturgo spagnolo: la passione ardente di Lanardu (Leonardo), che vibra in ogni fibra del suo corpo, il mancato candore di S’Isposa (La Sposa), priva della purezza della vergine, e, su tutti, la forza granitica, la fermezza irriducibile di Sa Mama (la Madre), che ha il volto e la voce di Lia Careddu, attrice storica del Teatro di Sardegna.
Abbiamo già avuto modo di parlare di Macbettu, versione in sardo del Macbeth shakespeariano firmata da Alessandro Serra (Teatropersona). Dopo un lungo processo creativo, lo spettacolo ha debuttato al Massimo di Cagliari lo scorso marzo e sarà in replica alla Triennale di Milano dal 23 al 28 maggio. Sardo da parte paterna, ma cresciuto sulla penisola, il regista ha sempre sentito parlare in casa la lingua barbaricina. Lo spunto, però, non è puramente linguistico, la fascinazione arriva in seguito a un reportage fotografico tra i Carnevali della Barbagia. Serra (lo sapevamo già) è un maestro nel plasmare la luce, rigoroso nel dirigere gli attori spingendoli verso una perfezione tecnica e una pulizia scenica sorprendente, e questo lavoro prodotto da Sardegna Teatro non fa che confermarlo. Superando l’esaltazione dei costumi che i carnevali, di anno in anno, ci consegnano, il regista rintraccia antichi rituali, evocando il mistero, accennando al divino e ponendo l’accento sulla dualità uomo/animale. L’emozione visiva è così forte che la parola, che è parola lontana, parola straniera, risulta meno ostile.
È andato in scena nel mese di aprile al Comunale di Sassari e al Massimo di Cagliari Titu Andronicu – Sa Mudadura, versione in sardo della prima tragedia del Bardo, firmata da Daniele Monachella e prodotta da Mab Teatro con il patrocinio di Cedac. Guardando al cinema di Julie Taymor e al suo Titus, Monachella – attore sassarese alla prima prova registica – sceglie come ambientazione un non-luogo, Dominariu, popolato da personaggi che portano addosso elementi che vogliono essere identificativi della sardità: i volti dipinti di nero, le pelli d’animale, i campanacci, mutuati dai Carnevali barbaricini, fino ad arrivare agli elmi ispirati ai Giganti di Mont’e Prama, statue nuragiche troppo spesso elevate a simbolo dell’identità culturale sarda. Si vuole tratteggiare una società sopraffatta dalla brama di potere, dalla vendetta, dalla brutalità, stimolando una riflessione sulla violenza che attraversa il nostro tempo. Una società, dunque, che potrebbe parlare qualsiasi lingua, d’altra parte le tematiche shakespeariane sono universali, e così i suoi personaggi. Ma non riusciamo a trovare un reale filo che connetta le vicende narrate alla Sardegna, perciò gli elementi sopraelencati finiscono per essere asserviti alla celebrazione folklorica. Lo spettacolo, insomma, ci è sembrato ancora acerbo, e avrebbe bisogno – a nostro avviso – di un’ulteriore fase di studio.
Ma non è tanto sulla riuscita di questi lavori (molto distanti fra loro) che ci interessa soffermarci, quanto su ciò che li accomuna. La lingua, innanzitutto, che è lingua viva, lingua parlata, ma non così spesso, è necessario sottolinearlo, lingua della drammaturgia. Dobbiamo guardare indietro, agli anni 80 e 90 del secolo scorso per ritrovare testi teatrali in limba. Che ci sia, dunque, un risveglio della drammaturgia in sardo? Staremo a vedere.
Ma la lingua è scelta per il mondo che si porta dietro, che ancora oggi profuma di arcaicità, perché l’immagine di terra primitiva continua a non abbandonare la Sardegna. E continua a sopravvivere nell’immaginario comune perché così è raccontata, ancora oggi.
Intendiamoci, il nostro non è un tentativo denigratorio, ma vuole essere un’apertura al dialogo, con gli artisti innanzitutto, quelli sardi e quelli che scelgono di lavorare in questa terra parlando di essa. Come si può raccontare oggi la Sardegna? Sicuramente senza dimenticare ciò che è stata, perché le tracce del passato sono evidenti, nella geografia come nella parola. Ma di quel passato cosa resta? E come interpretarlo oggi?
Un interessante tentativo è stato fatto da una performer sarda, che conosciamo come membro fondatore di Codice Ivan, Anna Destefanis. Per il suo primo lavoro indipendente, non firmato cioè dal collettivo toscano (che comunque lo produce insieme a Compagnia B), sceglie un esperimento partecipato, un quiz post-moderno dal titolo Century, al quale abbiamo partecipato lo scorso ottobre durante la rassegna sassarese Marosi di Mutezza.
Seguendo la modalità dei tableaux vivants, una serie di figuranti sono stati chiamati sul palco a ricomporre un quadro di Filippo Figari, All’antica capitale della forte Sardegna, dipinto nel 1916. Scopo del gioco, che coinvolge il pubblico con una serie di domande, è capire quali siano stati i cambiamenti sull’isola nell’ultimo secolo. Dove Figari dipingeva soldati, Anna Destefanis mette militari armati di mitra, ponendo l’accento sulla produzione di armi in Sardegna. Al posto della bandiera coi quattro mori troviamo quattro figure dipinte di nero, o meglio sporche di petrolio, evidente riferimento alle raffinerie sarde; il veliero dipinto da Figari è sostituito con un gommone, a simboleggiare l’approdo dei migranti sulle nostre coste. Un quadro vivente che racconta le moderne schiavitù mentre sulla scena risuonano le note di Procurad’e moderare, canto di protesta contro i proprietari terrieri scritto sul finire del 1700, e ancora oggi inno alla ribellione.
Un gioco intelligente, che si porta dietro una riflessione profonda sulla situazione politica, economica, e ovviamente sull’identità sarda. E non è un caso che Anna Destefanis sia stata scelta da Compagnia B per la direzione artistica del progetto Muse (di cui parleremo a breve), che mette in dialogo tre artisti della scena performativa contemporanea con i Carnevali barbaricini.
Insomma se l’isola fino a qualche tempo fa non faceva parlare di sé, è innegabile che qualcosa sui palcoscenici sardi stia accadendo. Sicuramente l’impulso dato da Sardegna Teatro a Cagliari ha giocato un ruolo fondamentale, e la nuova vita dell’Eliseo di Nuoro, entrato a far parte del Tric guidato da Massimo Mancini, fa ben sperare che il vento di cambiamento possa soffiare anche verso il nord Sardegna, teatralmente più depresso del Sud. Ma non sono da sottovalutare le produzioni più piccole, firmate da artisti più o meno noti a livello regionale. Perché c’è molto bisogno di nuovi sguardi, di sguardi autoriali (come sottolinea anche Massimo Mancini nell’intervista realizzata da Sergio Lo Gatto).
E non è singolare, tantomeno deprecabile, che in questa nuova fase della scena sarda, l’accento sia puntato, spesso, sull’identità. Ci auguriamo, però, che l’indagine possa essere di ampio respiro e che si possa aprire ai nuovi linguaggi della scena contemporanea.
Perciò ci domandiamo, e domandiamo agli artisti, sperando che possano rispondere con onestà intellettuale: come può essere espresso, oggi, quel sentimento di appartenenza che connota così fortemente noi sardi? E qual è l’immagine che vogliamo dare della Sardegna?
Rossella Porcheddu