In un’intervista al direttore artistico Massimo Mancini, andiamo alla scoperta del progetto di Sardegna Teatro. Produzione teatrale e attività culturali tra Cagliari e Nuoro.
Cagliari è più vicina a Tunisi che a Roma. La Sardegna è un’isola stupenda e piena di sorprese, di trame nascoste che bisogna andare a ricercare, per conoscerle meglio e osservarne ogni cambio di direzione, ogni corso, ogni prospettiva. Di ritorno da una visita nell’accogliente Cagliari, abbiamo intervistato al telefono Massimo Mancini. Generoso e preciso, il direttore artistico di Sardegna Teatro ha condiviso con noi un pensiero sul teatro, sulla sua funzione nel mondo di oggi e a contatto con il territorio.
Dopo un avvio negli anni Novanta all’allora Stabile delle Marche, è stato nel Consiglio di Amministrazione della rete europea IETM, poi direttore generale del CRT di Milano, cofondatore del Terni Festival, ora alla guida del Tric che gestisce il Teatro Massimo di Cagliari e il Teatro Eliseo di Nuoro.
Sta finendo la stagione. Come si sta concludendo questo tuo primo triennio nella direzione del Tric Sardegna Teatro? Che cosa hai portato dal tuo bagaglio di esperienze passate?
Ci si porta sempre dietro tutte le esperienze fatte e tutte le riflessioni. In questo caso la direzione arriva dopo aver già lavorato al progetto di candidatura di Cagliari a Capitale Europea della Cultura 2019 (finalista, ndr), quindi c’è una connessione con i percorsi passati. Sicuramente del mio primo lavoro all’interno del network IETM; dal Crt di Milano mi porto l’attenzione ai nuovi linguaggi, al teatro contemporaneo che si collega con l’oggi e anzi può contenere dei segni del futuro che non siamo ancora in grado di leggere. Dalle altre esperienze come quella al Caos di Terni arriva l’idea dei luoghi, che devono conservare una centralità in tutte quelle che sono le politiche di cambiamento di un territorio. Quindi immagino un teatro più come centro culturale ampio, uno spazio aperto che vede nello spettacolo uno dei tanti momenti ma non l’unico. Dunque è bene spostare il ragionamento anche fuori dal luogo deputato, verso reti e azioni simboliche. Penso allo spettacolo che ha inaugurato questa stagione, che abbiamo portato nella piazza di Sant’Elia, in uno dei quartieri che contiene le maggiori complessità.
Rispetto a queste possibilità, qual è il tuo pensiero sulla riforma del FUS?
Ho sempre pensato che i numeri si possano piegare alle idee, non il contrario. Proprio perché ogni progetto è nuovo, io ho accolto il nuovo regolamento del FUS come stimolo per ripensare totalmente la funzione del teatro. È stato un cambio epocale: per la prima volta una normativa statale non fotografa l’esistente cercando di regolarizzare istituzioni già formate – ma prova a cambiarlo. Se e in che modo sia poi cambiato è tutto da verificare. Mi sono però confrontato con concetti come quello di “rischio culturale”, con il rapporto con il fabbisogno del territorio, tutte domande che hanno stimolato una riflessione. Probabilmente il Tric è il modello che contiene più margine per essere ripensato. Poi ciascuno dei diciannove soggetti in quella lista ha fornito una risposta differente, creando una pluralità.
Hai parlato di nuovi linguaggi e luoghi. Guardando il programma si nota un tentativo di mettere in relazione anche i punti di una geografia complessa per identità e mobilità, a livello regionale.
La condizione di “isolamento” pone dei problemi e bisogna trasformarla in un’opportunità. L’idea più semplice che la marginalità consente è che proprio quei margini, appunto, consentono una sperimentazione più alta, ci si può assumere qualche rischio in più, perché non si ha una visibilità così costante, non è una piazza principale. Il vantaggio della provincia è anche quello di poter sbagliare e correggere più velocemente e migliorare. La relazione interna, qui, si basa poi sulla capacità di leggere le specificità di un territorio che è quasi un continente a sé. Oltretutto il Teatro Massimo non aveva una vera e propria dimensione regionale, era fortemente “cagliaricentrico”; abbiamo tentato allora di avvicinarci a più territori. Quello che sembrava poterci dare di più era quello della Barbagia e quindi il Teatro di Nuoro, che ha una grande tradizione soprattutto legata alla letteratura, passata e contemporanea, al fumetto e, in maniera internazionale, al MAN, tra i musei più vivaci d’Italia, pur nella sua marginalità. Abbiamo poi tenuto attivo un osservatorio dei movimenti artistici dei vari territori, creando un gruppo di sardi, sia di quelli rimasti in regione sia quelli che si erano allontanati per crearsi un proprio spazio, nei confronti del quale fungere da punto di riferimento. Anche qui, tuttavia, bisogna stare attenti a non diventare folkloristici e autoreferenziali, lavorando invece su quei segni di un territorio che possano essere letti universalmente. Un buon esempio in questo senso è stato il Macbettu di Alessandro Serra (in scena al Teatro dell’Arte di Milano dal 23 al 28 maggio, ndr), in cui abbiamo ricercato archetipi intelligibili anche dall’esterno, oltre a molti altri riferimenti magari meno evidenti.
A questo proposito ti faccio una domanda sul rapporto tra produzione e distribuzione.
Questo è forse proprio il tema che la riforma ha condizionato maggiormente, ponendo forti limiti di stanzialità soprattutto ai teatri nazionali. Occorre tenere delle percentuali e, è vero, è una limitazione, salvo poi riuscire a leggere il tutto da un’altra prospettiva: bisogna riuscire a mantenere quelle proporzioni, certo, ma se uno spettacolo va bene e viene venduto va bene, la differenza è che non va rendicontato al Ministero. Poi il mercato è complicato, girano molte cose non di alto livello e molte che meriterebbero di girare non girano. Noi non partivamo da uno storico di distribuzione alto, forse il 5% fuori dal teatro, quindi abbiamo aperto alla produzione, nei confronti della quale c’era anche una sorta di pregiudizio. Sono comunque contento della distribuzione, soprattutto perché io ho fatto una scelta netta rifiutando la logica degli scambi. Per me non è interessante né economicamente vantaggioso, perché qui bisogna lavorare su un pubblico completamente nuovo e ringiovanito, che si deve fidare di me. Io per presentare uno spettacolo lo devo conoscere. E la mia è anche una forma di rispetto nei confronti della direzione artistica degli altri spazi: se credono veramente in uno spettacolo che produco allora lo presentano, poi economicamente un accordo si trova. Non può decidere un teatro per la stagione dell’altro. Non funziona neppure matematicamente: stai vendendo uno spettacolo avendo in cambio l’incasso in sede di uno spettacolo che non conosci. Piuttosto la soluzione, se non c’è disponibilità di cachet, è di portare un nostro spettacolo altrove andando a incasso: se è il teatro a sceglierlo, sarà allora interessato a portare più pubblico. Cosa che non potrebbe accadere con uno spettacolo inserito secondo la logica degli scambi: se non si conosce uno spettacolo è quasi impossibile promuoverlo e dunque è un procedimento più rischioso.
A proposito di promozione e di racconto delle scelte artistiche agli spettatori. Che tipo di strategie mette in atto Sardegna Teatro al di là della programmazione?
A me interessa portare a teatro quelle persone che nei primi mesi di osservazione non incontravo mai. Cagliari è una città universitaria con trentamila studenti e, quando ho cominciato, non ne vedevo neppure uno. Abbiamo iniziato allora a costruire rapporti con degli intermediari: associazionismo universitario, l’Ente di diritto allo studio, singoli gruppi, una radio universitaria, i docenti uno a uno… un lavoro capillare di incontro quasi personale. Incontrare, raccontare la stagione al momento dell’avvio, operazioni basate sulla fiducia, per mostrare agli spettatori il teatro che non conoscono. Siamo anche usciti dalla logica dell’abbonamento stagionale: abbiamo una card che permette di vedere tutto quante volte si vuole, una sorta di carnet. Sui dati di vendita biglietti dobbiamo di certo ancora crescere, ma quel lavoro sulla fiducia sta dando buoni frutti. Un ottimo esempio sono le scuole, dove ogni spettacolo è accompagnato da un incontro che lo discute coinvolgendo sempre professionisti esterni e partner per realizzarlo, che stanno portando gli insegnanti a cercarci direttamente.
In vista del prossimo triennio, quali sono le linee su cui pensate di puntare?
Sono essenzialmente due. Ci piacerebbe condividere anche a livello nazionale un ragionamento su welfare e formazione. Se la riforma ha introdotto una criticità è anche quella delle scuole di teatro obbligatorie anche in territori che non ne avevano bisogno. Piuttosto sarebbe interessante esplorare allora un modello – più legato a quello francese – di formazione permanente: quando un artista non ha una committenza, non è impegnato in un lavoro, come si sostiene? I dati statistici dicono che il nuovo FUS ha creato leggermente più lavoro per gli attori nel complesso: ma sono più attori che lavorano per meno giornate. Come, invece delle scuole, stimolare i soggetti teatrali a essere una struttura di formazione permanente in grado di favorire nuovi incontri e sostituire un sussidio di disoccupazione comunque insufficiente.
Sul locale, poi, il nostro interesse è quello di sostenere la nascita di un’autorialità nella regia e nella drammaturgia. La Sardegna ha anche una storia recente, di non più di cinquant’anni, incomparabile con gli altri territori. La forte tradizione letteraria potrebbe sviluppare gruppi di lavoro e promuovere la nascita di una nuova professionalità, sempre attraverso il modello dell’incontro, del laboratorio.
Per chiudere, quali prospettive internazionali vi proponete?
Sicuramente questo è uno degli obiettivi principali del prossimo triennio. Siamo già dentro a diversi bandi, messi a punto con mondi altri rispetto a quelli più istituzionali, partenariati con le ONG, ad esempio. Ci interessa la dimensione europea soprattutto relativa ai nuovi linguaggi. Riguardo all’area geografica, stiamo guardando soprattutto ai paesi di cornice dell’Europa continentale e nordica e a quelli del Mediterraneo, alla costa sud, per un doppio scambio: che cosa significa andare verso nuovi linguaggi in un territorio così particolare? Che tipo di lavoro, ad esempio, fanno gli artisti in Libano, il paese con il più alto numero di rifugiati, circa 5 milioni? Le migrazioni in Sardegna dall’Africa sub-sahariana sono quasi una novità, allora come approcciarsi a un mondo apparentemente così lontano? Come far interagire questi popoli con la cultura locale? Anche attraverso la messa in relazione di segni tradizionali simili, come le maschere.
Sergio Lo Gatto