In Faust – Una ricerca sul linguaggio dell’Opera di Pechino la regista tedesca Anna Peschke si misura con la prima parte del capolavoro di Goethe.
Nel XIX secolo un antico capolavoro del teatro sanscrito Sakuntala divenne un caso nella letteratura europea, forse l’esempio più significativo di quello che il teatro asiatico fu per l’Occidente. Più avanti sarebbero state le scoperte e i viaggi a portare sulle scene d’Europa e d’America l’Oriente e i suoi attori.
Nel prologo di Sakuntala un capocomico invoca gli dei ed esorta un’attrice a dare inizio alla rappresentazione. È una preghiera che si trova spesso nei drammi sanscriti. Goethe – affascinato da questa formula – decise di adottarla nel Prologo del Faust, scritto nel 1798. Non è per pura dovizia storiografica però che ci permettiamo questo respiro più ampio parlando del Faust di Anna Peschke messo in scena con la Compagnia Nazionale dell’Opera di Pechino.
Facciamo un altro passo. Sempre nel XIX secolo i teatri dell’Asia entrano in Occidente da un lato come studio del diverso, dall’altro come diversità esibita. Le tournée degli artisti orientali in Europa e negli Stati Uniti cominciano a non essere più un evento eccezionale, si liberano in parte dal contesto culturale e spesso di autentico conservano solo la nazionalità degli artisti. È un periodo di contatti e scambi dove fondamentale è il ruolo giocato dalle Esposizioni Universali. Non a caso è in questo contesto, a Parigi, che Artaud assiste agli spettacoli di danza balinese – a partire da qui l’universo orientale inizia a modificare il linguaggio del teatro europeo.
In questo nuovo millennio l’operazione di Anna Peschke quindi si inserisce in un reticolato di rapporti e scambi che si è poi evoluto con i decenni per diverse strade seguendo altre traiettorie. La domanda è dove il senso di questa operazione si possa collocare oggi. L’impressione è che rimanga asfissiato in una ricerca personale, tutta della sua ideatrice, che aveva già lavorato con il linguaggio dello Jīngjù nel Woyzeck del 2012. C’è la bellezza dello stile, la passione della ricerca, il fascino che esercita un’altra tradizione, il sapore della contaminazione che però oggi non crea più un effetto straniante. Dove finisce l’ammirazione per altre forme d’arte quando la capacità di servirsene si ferma alla sola esposizione?
Nei primi minuti lo spettacolo Faust dà modo di orientarsi in una rappresentazione della realtà non mimetica ma convenzionale. L’Opera di Pechino è una delle 360 diverse forme regionali di opera cinese: rispetto al Nō giapponese o all’Opera lirica italiana, può definirsi come forma nuova, nata in tempi più recenti (nel 1790) e a oggi la più popolare e diffusa della Cina. Seppure in una sintesi di differenti arti e tecniche – danza, musica, canto, costumi – la rappresentazione privilegia di certo l’attore come centro dello spettacolo. Accade così anche in questo Faust, dove quattro performer d’eccezione, Liu Dake (Faust), Xu Mengke (Mefistofele), Zhao Huihui (Valentino) e Zhang Jiachum (Margherita), sono accompagnati dalle musiche originali di Luigi Ceccarelli, Alessandro Cipriani e Chen Xiaoman, eseguite rigorosamente in scena – come prassi nell’Opera di Pechino.
Solo un tappeto verde e sedie rosse, ma nessun fondale né una scenografia realistica occupano il palcoscenico spoglio. Sono i gesti, la danza degli attori e le convenzioni a condurre lo spettatore attraverso il dramma.
Gli attori dell’opera di Pechino si basano su un grande repertorio di azioni e di regole codificate che viene trasmesso loro durante un lungo apprendistato. L’attore orientale si muove dentro regole precise: più libero rispetto a quello occidentale che è prigioniero della psicologia, sconta duramente il non poter uscire dai confini della tradizione che lo disciplina e lo protegge.
Ecco forse che solo nell’ultima parte dello spettacolo, quando Faust si ritrova a fare i conti con se stesso dopo aver commesso i peggiori delitti, la convenzione si rompe. È in questa chiusura che Liu Dake, attore “perfettissimo”, consegna generosamente la sua tecnica, il suo bene più prezioso, e la diluisce, inquinandola – ma con estrema grazia – con uno psicologismo che prima non gli apparteneva. Si porta le mani al volto, scompone il trucco che lo imprigiona nella maschera di un Jing (ruolo maschile dal viso dipinto), e capisce di essere un Faust, personaggio oltre la maschera. È in questa ultima scena che lo spettacolo sembra liberarsi dall’isolamento dell’esposizione e dalla condizione di esibita contaminazione e riuscire finalmente a farci vedere quel momento in cui i mondi si espandono, le tradizioni esplodono e il teatro ci attraversa.
Doriana Legge
Teatro Argentina, Roma – marzo 2017
FAUST
di Li Meini
basato sull’opera di Johann Wolfgang Goethe
traduzione Fabrizio Massini
progetto e regia Anna Peschke
musiche originali composte da Luigi Ceccarelli, Alessandro Cipriani e Chen Xiaoman
luci Tommaso Checchucci
costumi Akuan
materiali scenici Li Jiyong
trucco e acconciature Ai Shuyun, Li Meng
coreografie Zhou Liya, Han Zhen
con Liu Dake, Xu Mengke, Zhao Huinui, Zhang Jiachun
prodotto da Emilia Romagna Teatro Fondazione e China National Peking Opera Company