Debutta al Piccolo Teatro di Milano il nuovo lavoro di Emma Dante, Bestie di Scena, una riflessione sul lavoro dell’attore, tra vita pubblica e vita privata. Recensione.
La «nuda vita» – secondo una felice espressione resa nota da Giorgio Agamben – indica la semplice esistenza biologica che, spogliata di ogni diritto, precede la dimensione politica; è il grado più basso dell’umano e possiede il singolare privilegio di essere ciò sulla cui esclusione si fonda la comunità umana. L’homo sacer, che possiede soltanto il proprio corredo biologico, bandito dalla comunità, è perennemente fatto oggetto dell’esercizio della forza sovrana, che ne decide vita o morte.
Su questo sfondo sembra sensato inquadrare gli “imbecilli”, da in-baculum ossia senza bastone, quegli esseri fragili e esposti, reietti e vulnerabili che sono i componenti di Bestie di scena di Emma Dante, che abbiamo visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano. Mentre il pubblico entra in teatro, questi si scaldano e si coordinano, trovano ritmi e li alterano, sovrapponendosi e disponendosi lungo assi di geometrica imperfezione. Quindi si liberano dei vestiti e, bagnati di luce calda, volgono lo sguardo alla platea.
Il gesto di spogliarsi e lanciare – quasi con protervia – gli abiti al pubblico si tramuta in fretta in un contorcimento pudico, nella vergogna della nudità. Di lì è un attraversamento di stazioni, in balia di accadimenti azionati da un demiurgo invisibile e rimbalzati sui performer, agenti reattivi a livello epidermico – nude vite – al giogo di stimoli fugaci. Si assommano corse e camminate, i respiri si affannano e gli sguardi vagano in cerca di qualcosa. Uno per volta attori e attrici si appropriano di un carattere – lo spadaccino, il carillon, la ballerina, la scimmia – fino a comporre ensemble disordinati, in cui l’attenzione si conserva nell’attimo precario tra uno stimolo e un altro. Perciò acqua e stracci per asciugare, noccioline da scartare, trangugiare e sputazzare, scope giganti per sgombrare il palco. Il tappeto sonoro è una trama di sussulti, passi, sospiri e parole mozzicate, in cui l’unica fenditura è aperta da Only You dei Platters, che suona sardonica in questa danza di corpi che sono soltanto (meravigliosamente) corpi. Soli, immersi in un’immanenza terrena che non fa sconti e non promette redenzioni.
Alcune letture di questo spettacolo ne hanno evidenziato aspetti di sadismo gerarchico o di banale ripetitività del quotidiano; ci sembra che corrano il rischio di mantenersi appiattite su un piano letterale di visione. Se un aspetto fondamentale della semiosi teatrale si ritrova nella presenza in essa di sistemi di segni eterogenei e interdipendenti, un approccio miope che non concede allo sguardo di rinviare il segno a un universo di senso, può esporsi alla possibilità della noia, vedendo un gruppo di corpi nudi compiere azioni inutili in sede scenica, o addirittura all’indignazione…ci sono (parecchi) corpi nudi che fanno cose inutili sopra un palco!
Invece l’antropologia esposta cui dà vita Emma Dante sembra che riassuma ed evochi il disagio dell’esistenza corporea, materica quindi fallibile, elementare nella sua finitezza ma scomposta in sezioni di indefinita complessità. La fragilità, il senso atavico di manchevolezza e insufficienza, la rincorsa sragionata di fini vani, sono alcune gradazioni dell’evocazione immaginifica e potente costruita dalla regista palermitana, ben consapevole della lezione vivissima e struggente del Tanztheater bauschiano. L’opera parte dalla volontà di raccontare il lavoro dell’attore – si legge nel programma di sala – ma inizia con la rinuncia a qualsiasi tema e, risalendo allo stadio originario e primitivo cui si presta chi va in scena, si avvicina all’essenzialità umana, ancestrale, sacra e impura al contempo senza contraddizione alcuna.
Quella nuda vita corporea che s’inscrive nella sfera dell’intimità e accompagna, sotterranea, la vita pubblica. Scrive Agamben: «Il peso di una compagna senza volto è così forte che ciascuno cerca di condividerlo con qualcun altro e tuttavia estraneità e clandestinità non scompaiono mai del tutto e permangono irrisolte anche nella convivenza più amorosa». Su questa atroce e drammatica cifra si possono leggere i tratti dell’opera perturbante e commovente di Emma Dante, capace di destrutturare e disincantare i meccanismi della rappresentazione, esponendo la caducità dell’esistente con limpida e disarmante schiettezza. Il pubblico reagisce, partecipe e emozionato, Bestie di scena riesce a costruire un discorso che non sia ombelicale e, pur parlando di chi va in scena, si presta a dire qualcosa su chi quella stessa scena, complice, la osserva.
Giulia Muroni
Visto al Piccolo Teatro Strehler, Milano – Marzo 2017
BESTIE DI SCENA
ideato e diretto da Emma Dante
con Elena Borgogni, Sandro Maria Campagna, Viola Carinci, Italia Carroccio, Davide Celona, Sabino Civilleri, Alessandra Fazzino, Roberto Galbo, Carmine Maringola, Ivano Picciallo, Leonarda Saffi, Daniele Savarino, Stephanie Taillandier, Emilia Verginelli, Daniela Macaluso, Gabriele Gugliara
elementi scenici e costumi Emma Dante
luci Cristian Zucaro
direttore di palcoscenico Gabriele Gugliara
assistente di produzione Daniela Gusmano
coordinamento Aldo Miguel Grompone, Roma
coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Atto Unico / Compagnia Sud Costa Occidentale, Teatro Biondo di Palermo, Festival d’Avignon
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