Al Teatro della Tosse di Genova I giusti dall’omonimo testo di Albert Camus, per la regia di Emanuele Conte. Recensione
«Il socialismo non è altro che un cristianesimo degenerato. Esso mantiene infatti quella credenza nella finalità della storia che tradisce la vita e la natura, che sostituisce fini ideali ai fini reali, e contribuisce a fiaccare le volontà e le immaginazioni». In questo modo Albert Camus, ne L’uomo in rivolta, ridimensiona l’utopia socialista, marcando così una distanza con Jean Paul Sartre, impegnato invece a produrre una teoria che coniughi il socialismo con la libertà. La sempiterna illusione umana di sostituirsi a Dio facilmente conduce a spasmi di onnipotenza che, secondo Camus, digradano in fatali rivoli di disumanità. La più recente produzione del Teatro della Tosse prende le mosse dal testo di Camus I giusti, – che con L’uomo in rivolta e La peste fa parte della Trilogia della rivolta – per guardare alle contraddizioni e ai conflitti insiti nel fanatismo di chi si sente mosso da un ideale sovrano.
Nella fattispecie l’espediente narrativo è fornito da un fatto storico: l’uccisione nel 17 febbraio 1905 del granduca Romanov da parte di Ivan Platonovič Kaljaev, membro dell’Organizzazione di combattimento del Partito socialista-rivoluzionario. La scena si apre mostrando una grande gabbia, sulla quale si ergono gli attori. Si tratta di un gruppo armato di rivoluzionari, in procinto di compiere un’azione sovversiva e violenta, per rovesciare la dinastia Romanov. Il primo tentativo fallisce per scrupolo dello stesso Kaljaev che, nella carrozza designata, scorge il Granduca Sergej in compagnia della moglie e dei nipoti. Questa riluttanza, dettata da un sentimento di pietas alla vista dei bambini, si presta a essere sottoposta a un’attenta disamina da parte dei compagni, alcuni dei quali rivendicano una ragion di stato talmente forte e universalmente giusta da concedere qualsiasi violenza. Si propugna perciò una visione sacralizzata di giustizia in cui l’uccisione di un essere umano viene svuotata del suo portato esiziale, per assumere soltanto il significato simbolico di uccisione di un’idea astratta di autorità.
Il regista Emanuele Conte evoca questa cifra di idealità in una rappresentazione che estranea dai dati di spazio e tempo, dove il primo è condensato nei confini della gabbia, dapprima calpestata dagli attori e poi prigione che avvolge Stepanov, reo confesso dell’assassinio. Tale gabbia fornisce una efficace immagine della condizione liminare in cui si trova l’essere umano, in bilico tra la moralità dell’agire per sé, per la vanità egotica di un principio assunto come assoluto, e l’effimera volontà – o presunzione – di agire per il bene altrui, in nome di una rivendicazione che rischia di tramutarsi in vendetta.
Il tempo delle vicende narrate è quello di inizio Novecento, ma non si insiste su una riproposizione dettagliata o naturalistica. Camus ha composto questo testo nel 1949 guardando al Dopoguerra francese mentre si avvicinava a posizioni anarchiche, la questione però si presta facilmente a fornire delle chiavi interpretative per leggere una molteplicità di dimensioni storiche, come suggerisce Conte a fine spettacolo – la polemica interna alle Brigate Rosse tra Renato Curcio e Mario Moretti intorno al senso e alla liceità dell’assassinio politico – ma anche le questioni contemporanee di lotta armata, tra le quali figura il terrorismo islamico.
Il regista, dopo l’Antigone e l’Eurydice di Jean Anouilh, conferma l’attitudine al confronto con temi abissali e opere non molto rappresentate nel panorama teatrale italiano. Il lavoro sul testo, tradotto da Giulia Serafini, è fedele, lo restituisce in gran parte in tutta la sua ricchezza drammaturgica. L’impianto scenico risulta funzionale a una rappresentazione senza sbavature, in cui si affida una materia estremamente preziosa a una recitazione che non la sovrasti, lasciandola echeggiare. Il parterre di attori nel complesso si mostra adeguato al compito, nonostante qualche momento non del tutto convincente, in cui alcune parole si perdono a causa di una vocalità non abbastanza rigorosa e capita che affiorino cadenze regionali. Il ritmo dello spettacolo non è affannoso, conosce attimi di sospensione, rarefazione e arresto. D’altronde – dice Camus a proposito di rivolta nell’arte – «la contestazione della realtà per l’affermazione di un’altra realtà si concilia con una radiosa, solare immobilità. Nelle tele o nelle statue di figure in estasi sarebbe dunque da cogliersi, intuitivamente, il segreto del filosofo-poeta della rivolta?».
Giulia Muroni
Teatro della Tosse, Genova – marzo 2017
I GIUSTI
di Albert Camus
traduzione Giulia Serafini
regia di Emanuele Conte
con Luca Mammoli, Gianmaria Martini, Sarah Pesca, Graziano Sirressi e Alessio Zirulia
scene Luigi Ferrando
costumi Danièle Sulewic
luci Matteo Selis
assistente alla regia Alessio Aronne
assistente costumi Daniela De Blasio
produzione Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse