In scena al Piccolo Eliseo Patroni Griffi di Roma, Il lavoro di vivere di Hanoch Levin diretto da Andrée Ruth Shammah. Recensione.
Al Piccolo Teatro Eliseo di Roma mentre gli ultimi spettatori entrano in sala per la prima de Il lavoro di vivere con Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto e Massimo Loreto, prende posto nel pubblico anche Arturo Cirillo; la sua presenza nelle prime file mi sembra amplificare quella di Cecchi ancor prima che l’attore entri in scena, saranno gli anni di lavoro assieme, o le sue frasi di qualche settimana fa in un’intervista sul mestiere dell’attore: «ritengo che la mia vera scuola siano stati i dieci anni di teatro con Carlo Cecchi […] Diceva “Non voglio che gli attori si nascondano nei personaggi, ma che gli attori si rivelino nei personaggi”».
E se davvero ce ne fosse ancora bisogno, Carlo Cecchi trova nell’interpretare Yona Popoch, cinquantenne in crisi coniugale e di mezza età, l’ennesima occasione per rivelarsi in tutta la sua arte di attore. Sulla scena si fa sensibile in lui il personaggio, ruvido, percepibile alla vista e quasi al tatto; il personaggio è materiale vestito da Cecchi come gli abiti con i quali lo stesso Yona in una sola notte intraprende e perde una battaglia sulle rovine amorose della sua vita coniugale e, soprattutto, sulle rovine disamorate della sua vita; è così nitido quel materiale e allo stesso tempo così riconoscibile, sotto, il gesto dell’attore come articolazione del corpo, dell’intenzione; a interrogare lo spettatore, il personaggio, ad affascinarlo, l’attore. Ma la messinscena del caustico testo di Hanoch Levin, prolifico e tra i più noti autori israeliani nato a Tel Aviv nel 1943 e morto nel 1999, non gode solo della presenza di Carlo Cecchi.
La scena, una camera da letto con delle tende lunghe e pesanti che affacciano sulla strada, un appendiabiti, un paio di sedie in ferro battuto e un letto matrimoniale che campeggia al centro, è in pendenza verso il pubblico; le assi di legno del pavimento inclinano la camera quasi a volerne mostrare ogni angolo, così come il testo svelerà senza censura o remora alcuna l’intimità di una coppia dopo trent’anni di vita coniugale: la disillusione dei corpi, la cattiveria del sarcasmo usato come guanto per toccarsi ancora, l’imperfezione della vita sia essa da soli o con l’altro. Ed è a quest’insensatezza che non si arrende Yona Popoch, «com’è successo, che ero bambino, tutto il mondo apparecchiato per me, e come ha fatto tutto a sgretolarsi fra le dita»; ormai sulla strada della vecchiaia l’uomo non accenna ad abbandonare le ambizioni irrisolte, i progetti di vite migliori. Non abbandona, in fondo, l’idolatria della speranza; piuttosto, il protagonista è deciso ad abbandonare il «culo flaccido» della moglie che lo ha invece accompagnato alla vecchiaia, scaraventandola giù dal letto nel bel mezzo della notte per iniziare un duello che sembra con l’altra, ma è in realtà con se stesso.
È Fulvia Carotenuto l’interprete che si svela sotto la veste da notte della conosorte di Yona, Leviva, anche lei impeccabile, ispirata, che della donna ragionevole e passionale prima, incredula e cinica poi, trova il baricentro e l’animo; Leviva si ritrova a ricordare al marito quanto il desiderio possa essere coltivato, quanto la vita vissuta perfino nel suo declino, prima di cedere anche lei al rituale cinico e masochista in risposta all’ostinatezza del marito. Poi, Massimo Loreto, un Gunkel grottesco, ingombrante e sottile, nel quale tecnica dell’attore e verità del personaggio convivono creando un movimento nel cuore della notte dei due coniugi, a ricordare a chi si affanna ad aggredire l’altro che da soli la notte è ancora più fredda.
La regia di Andrée Ruth Shammah riproduce con raffinatezza l’atmosfera della camera da letto, il silenzio e il fervore dei pensieri notturni, l’accanirsi spietato, comico, degli uni sugli altri; porta nei movimenti scenici il fallimento e la frustrazione dei personaggi del testo di Levin, autore dalla costante visione filosofica dell’esistenza umana, foriero di personaggi incatenati al parlare della volontà di agire piuttosto che al vivere l’azione. Il lavoro di vivere è un’opera di teatro da camera, appunto, per i suoi tre interpreti e per un “servo di scena” che in entrata e in chiusura apre e chiude le tende della quale davvero non se ne sente il bisogno. Hanoch Levin con un linguaggio che passa dal sarcasmo pungente e sboccato alla forza drammatica, parla dalle macerie della vita e sembra intercettare la domanda che in fondo tutti ci facciamo: perché è così difficile il lavoro di vivere?
Luca Lòtano
Teatro Piccolo Eliseo Patroni Griffi, Roma – febbario 2017
IL LAVORO DI VIVERE
di Hanoch Levin
uno spettacolo di Andrée Ruth Shammah
con Carlo Cecchi
e con Fulvia Carotenuto, Massimo Loreto
musiche Michele Tadini
produzione Teatro Franco Parenti