Abbiamo incontrato ad Amsterdam il talento italiano Vito Mazzeo, primo ballerino del Dutch National Ballet. Intervista
Vito Mazzeo è, tra i nostri expat del balletto, uno dei nomi più illustri. Nato nel 1987 in Calabria, si è formato alla Scuola di Ballo del Teatro alla Scala e a 18 anni è entrato al Royal Ballet di Londra. Abbiamo raccolto questa intervista a Amsterdam dove questo talento italiano danza come primo ballerino al Dutch National Ballet. Nei giorni successivi al nostro incontro, la sua agenda lo ha portato al Teatro dell’Opera di Roma dove lo abbiamo visto eccellere nel ruolo del principe accanto a Susanna Salvi ne La Bella Addormentata.
Come mai hai deciso di lasciare una compagnia così prestigiosa come il Royal Ballet di Londra?
Il Royal Ballet è una compagnia con un forte senso della gerarchia e avevo capito che avrei dovuto aspettare troppo prima di poter accedere ai ruoli che mi interessavano. Sono una persona impaziente, mi annoio a ripetere tante volte le stesse coreografie perché ho bisogno di essere me stesso nei ruoli che mi sono assegnati. È Vito che fa Romeo, quando danzo Romeo e Giulietta. Se Shakespeare descrive Romeo felice, la felicità di Romeo che mi interessa è la mia, non uno stereotipo. Credo che il debutto in un ruolo sia il momento più genuino per l’espressività di un danzatore. Per questo posso dire con orgoglio di essere stato nel cast della creazione di Chroma di Wayne McGregor, un balletto contemporaneo che ormai è entrato nel repertorio di diverse compagnie. Se oggi amo lavorare al Dutch National Ballet è perché se un domani qualcuno dovrà danzare delle coreografie di Hans Van Manen o di David Dawson guarderà i nostri video perché è qui che nasce quella danza. Sono a Amsterdam da quattro stagioni e ne sono felice, inoltre, perché l’Europa mi dà maggiori possibilità rispetto all’America; per esempio, posso spostarmi più facilmente. Dopo l’esperienza a Londra sono stato tre anni a Roma durante la direzione di Carla Fracci e successivamente sono andato al San Francisco Ballet.
Com’è stato il tuo rapporto artistico con Carla Fracci?
Molto del danzatore che sono lo devo a Carla Fracci. Sono un ballerino che tende a porsi come strumento per il coreografo. Mi piace il repertorio ma amo moltissimo la creazione e ho bisogno di essere me stesso mentre danzo. Per questo, per esempio, Carla Fracci non mi diede il ruolo di Romeo, ma quello di Mercuzio che per indole mi si addice di più. A Roma, siccome la programmazione era molto tradizionale, ho avuto modo di studiare i grandi ruoli con i maestri migliori. Carla Fracci conosce il repertorio in modo approfondito e storicamente accurato; ci sono dei movimenti in Giselle che, quando mi capita di vederlo in scena, mi dà fastidio non ritrovare. Ho studiato il ruolo di Albrecht (ndr, il ruolo maschile principale nel balletto Giselle) per due anni prima di danzarlo in scena. Gli insegnamenti di Carla Fracci sono l’eredità di interpreti come Olga Spessivtseva, e se un giorno avrò l’opportunità di interpretarlo anche io potrò trasmettere queste informazioni. Fracci ha donato le sue conoscenze a persone che lei stessa ha scelto, non a tutti. Ricordo che dopo le prove Evgenia Obraztsova piangeva, ma era perché Carla Fracci ci teneva e le ha dato tutto quello che Cenerentola rappresenta per lei. Era durissima, dopo la prima prova di Giselle mi ha detto: «Non ho capito niente di quello che volevi esprimere», e l’ha detto davanti a tutta la compagnia. Lo faceva perché sapeva che io avrei recepito nel modo giusto le sue parole. Sono stato fortunato, me ne rendo conto, e faccio tesoro dei suoi insegnamenti. A volte si dà la colpa al maestro – che non insegna adeguatamente, che non è abbastanza generoso, che è geloso di quello che conosce – ma anche la trasmissione funziona come un pas de deux, e dipende da chi insegna, certo, ma anche da chi apprende.
E dopo i tuoi tre anni a Roma sei andato a San Francisco…
Ricordo l’ultima rappresentazione di Giselle all’Opera di Roma, avevo 40 di febbre e altrettanta ne aveva Carla Fracci che venne comunque in teatro apposta per vedermi. Il giorno seguente sarei partito per una serata come ballerino ospite a Firenze e poi per fare l’audizione a San Francisco. All’inizio era contrariata, ma presto capì le mie esigenze. Ho avuto dei grandi maestri, è vero, ma ho costruito la mia carriera da solo. La mia speranza è quella di arrivare a sessant’anni e di essere felice del mio percorso.
Come riassumeresti la tua esperienza al San Francisco Ballet?
Il San Francisco Ballet è probabilmente la migliore compagnia al mondo: il gusto, il fiuto per il talento coreografico… è stato un periodo meraviglioso. Ho danzato anche i classici e sono stato presente in molte creazioni. Purtroppo, però, negli Stati Uniti ci sono dei problemi di visto che sono incompatibili con la mia vita sentimentale, quindi ho scelto di tornare in Europa, senza rimpianti. Ho vissuto tutto molto in fretta in quella compagnia: sono stato nominato primo ballerino dopo sei mesi, danzavo quasi in ogni produzione e creazione. Credo che per loro rappresentassi una fisicità particolare, essendo un danzatore alto.
Come ti sembra che stia evolvendo il balletto dal punto di vista del corpo e delle qualità fisiche richieste ai danzatori?
Per quanto riguarda gli uomini, c’è stata una femminilizzazione dello stile molto forte, con le grandi estensioni degli arti che ormai non sono più solo caratteristica delle danzatrici, per esempio. Nel tempo, le mie qualità diciamo “femminili” – come l’elasticità muscolare o l’uso più pronunciato del port de bras – le ho trasformate in un punto di forza. Inizialmente ho dovuto prendere le misure con la mia altezza, per esempio nei salti… all’inizio infatti non saltavo molto, mentre per un uomo l’elevazione è una cosa molto importante. Poi ho capito come funziona la coordinazione e ho imparato. Ho fatto i conti con la mia fisicità particolare, da una parte, e con le doti, dall’altra. Ricordo una lezione con la maestra Colombini, alla Scala, in cui lei chiese di fare mezza pirouette e io ne feci quattro. Venni sbattuto fuori dalla classe perché avevo mancato di rispetto a lei e ai miei compagni non avendo fatto quello che mi era stato richiesto.
Cosa ne pensi del modo in cui si muove oggi il mondo del balletto nei confronti del pubblico?
Non siamo più nell’Ottocento in cui il teatro era praticamente l’unica forma di “svago”. Oggi il pubblico va conquistato anche e soprattutto attraverso delle forme di coinvolgimento alternativo che permettano alle persone di vedere dall’interno e di capire quello che noi danzatori facciamo ogni giorno.
Che cosa pensi, in particolare, della situazione italiana?
In Italia mi sembra che manchi un’identità chiara, ma la stessa cosa accade anche in molte compagnie nel mondo. Non c’è continuità con i coreografi, per esempio, e questo fa venire meno una complicità che deve esserci sia internamente agli ensemble che nel rapporto con il pubblico. Altrimenti, ci si può anche dedicare al recupero dei classici: per esempio Fracci aveva tentato di specializzare il corpo di ballo romano sul repertorio dei Ballets Russes. Eleonora Abbagnato sta cercando di fare la stessa cosa oggi con Roland Petit o Angelin Preljocaj, un ottimo proposito. Bisogna creare un’identità artistica e cercare il talento dei coreografi, il talento non è qualcosa che si manifesta naturalmente nel mondo, ma va costruito. Sono sempre felice di tornare in Italia, adesso mi aspettano le date de La Bella Addormentata a Roma e poi alla Fenice di Venezia.
Come ti immagini nel futuro?
Non credo che la mia carriera possa evolvere nella creazione coreografica anche se per certi aspetti mi viene naturale. Piuttosto, mi interessa di più la trasmissione dei ruoli per poter passare ad altri quello che io ho ricevuto dai miei maestri. Bisogna insegnare ai giovani ballerini che la danza non è l’unica arte che devono conoscere per poter danzare bene: bisogna conoscere la musica, la pittura, la moda… È necessario che la danza torni a essere, soprattutto agli occhi degli artisti stessi, un’arte capace di mettere in relazione tutte le arti.
Gaia Clotilde Chernetich