Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Nel numero 54 veniamo a conoscenza della setta dei Sestii e della loro attitudine verso il teatro.
In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – Collaboratore di ricerca post doc dell’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.
Seneca ci informa che, tra le varie sette filosofiche antiche, ebbe grande ma breve fortuna la scuola dei Sestii, così chiamata in virtù dei nomi dei suoi fondatori: Quinto Sestio e suo figlio Sestio Nigro. Dalle poche testimonianze sulla loro attività e dagli spesso rari resti delle loro opere, possiamo sapere che i Sestii erano filosofi che predicavano il disimpegno dalla politica, ponevano il bene umano nella coerenza morale e praticavano il vegetarianismo, giacché questo educa alla mitezza e alla frugalità. Apprendiamo, poi, che erano pensatori che studiarono diverse discipline tecniche, tra cui la grammatica, la retorica, la fisica, la medicina.
Nonostante le poche informazioni, si può ricavare un profilo abbastanza unitario, a proposito del loro atteggiamento verso gli attori e il teatro. I Sestii furono perlopiù indifferenti o persino ostili verso gli uni e verso l’altro, pertanto nutrirono il medesimo sentimento di disprezzo già manifestato da filosofi o moralisti romani, nonché incarnato soprattutto da Cicerone.
Sestio padre e figlio non sembrano aver detto nulla, in realtà, sugli attori e sulla loro arte. L’ipotesi che questo silenzio sia indice di disinteresse od ostilità può trovare sostegno, tuttavia, studiando la biografia del loro discepolo Lucio Crassicio Pasicle. Secondo Svetonio, costui fu dapprincipio uno scrittore di farse sceniche e insegnante di grammatica nelle scuole, che divenne poi famoso per il suo commentario al poemetto Zmyrna di Elvio Cinna. Quando Crassicio incontrò Quinto Sestio, tuttavia, egli abbandonò immediatamente la sua attività teatrale e filologica, per divenire discepolo del filosofo. Il gesto mostra che, per seguire la scuola dei Sestii, Crassicio doveva rinunciare al teatro, o perché questo non lasciava tempo sufficiente per coltivare la rigorosa filosofia sestana, o perché era incompatibile con essa. Il disimpegno predicato da Quinto Sestio doveva così estendersi oltre la politica e includere la rinuncia alla pratica artistica.
Più esplicito è l’atteggiamento ostile verso la recitazione del retore e filosofo Papirio Fabiano. Come Crassicio, egli fu allievo di Quinto Sestio e manifestò la sua ostilità verso l’arte degli attori in una sua accusa pubblicamente tramandataci da Seneca “il vecchio”, genitore del ben più noto Seneca filosofo. Essa intendeva colpire un padre che cercò di allontanare il figlio dalla condotta dissoluta, simulando o “recitando” i suoi stessi vizi. Quest’uomo era convinto, infatti, che il giovane avrebbe provato disgusto verso la dissolutezza, se avesse visto quanti grandi mali essa produce. Ora, Fabiano accusò la “recita” del padre di essere del tutto inefficace. Come il generale non rende coraggioso l’esercito fuggendo dalla battaglia e mostrando quanto sia disonorevole la fuga, così nessun padre che si prodiga a fin di bene nell’intemperanza educa il figlio alla temperanza nel sesso e nell’uso del denaro. Se a questo proposito si ricorda che Seneca filosofo ci informa che Fabiano era convinto che i vizi e le passioni che ne stanno alla base non dovessero essere corretti con discorsi/pratiche sottili, ma presi aggressivamente d’assalto, si può precisare che questo era il senso della sua accusa. Il padre esercitava troppa sottigliezza per indurre il figlio alla virtù, mentre invece doveva educarlo disapprovando con forza la condotta dissoluta che stava seguendo.
Moderata è, infine, la posizione di Aurelio Celso, che fu a sua volta sestano e, tuttavia, guardava con apprezzamento l’arte del recitare. Nel terzo degli otto libri Sulla medicina, infatti, l’autore accoglie con favore la cura di certe patologie – quale la follia, o la tosse continua – attraverso la recitazione e la lettura ad alta voce.
Questa divergenza dall’ostilità verso il teatro nutrita dagli altri Sestii può essere spiegata in tre modi. Una prima ipotesi è supporre che Celso non era più o non era ancora sestano, quando scrisse il suo trattato medico. L’argomento fu già svolto da Italo Lana (La scuola dei Sestii, p. 123), che vorrebbe che il trattato Sulla medicina prescriva a volte cose contrarie alla dottrina di Quinto Sestio, quale la dieta a base di carne. Una seconda ipotesi è che Celso menzionò la cura attraverso la recitazione, perché nutriva un forte interesse verso la retorica, documentatoci da Quintiliano. Una terza è che pratica terapeutica poteva essere registrata, senza con ciò compromettere la sua adesione alla scuola sestana. La prova di quest’ultima ipotesi potrebbe essere una testimonianza di Agostino, che ci dice come, nei suoi sei volumi di raccolta delle opinioni dei filosofi, Celso era solito riferire le teorie filosofiche senza lodarle né criticarle, bensì cercando di descriverle al meglio. Il medesimo atteggiamento poteva essere stato assunto nel riassumere le dottrine mediche citate nei suoi libri Sulla medicina. Celso poteva aver riportato la cura della pazzia e della tosse attraverso la recitazione / la lettura ad alta voce, senza tuttavia lodarla (altrimenti, non sarebbe stato sestano), né condannarla, altrimenti sarebbe venuto meno al suo dovere di scrittore scientifico, che descrive senza giudicare. Anche se le tre ipotesi sono tutte possibili, ritengo che la terza sia più difendibile, perché trova maggiori sostegni testuali a suo carico.
Il viaggio nella filosofia dei Sestii non aggiunge nulla di più a quanto già riportato nei precedenti appuntamenti della rubrica. Essa offre, però, ulteriore documentazione storica sul disprezzo del teatro che caratterizzava la filosofia praticata a Roma.
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Perciò tante scuole filosofiche scompaiono per mancanza di successori: gli Accademici, sia quelli vecchi sia quelli nuovi, non hanno lasciato nessun capo; chi è che tramanderà gli insegnamenti di Pirrone? La famosa scuola pitagorica, malvista dalla folla, non trova un maestro; la recente scuola dei Sestii, di energia romana, dopo essere sorta con un grande slancio, si è estinta quand’era ancora agli inizi (Seneca, Questioni naturali, libro VII, cap. 32, § 2)
Sozione spiegava perché Pitagora si era astenuto dal mangiar carne di animali e perché in seguito se ne era astenuto Sestio. Le loro motivazioni erano diverse, ma entrambe nobili. Sestio riteneva che l’uomo avesse abbastanza per nutrirsi anche senza spargere sangue, e che divenisse un’abitudine alla crudeltà lo squarciare gli animali per il piacere della gola. Aggiungeva poi che bisogna limitare gli incentivi alla dissolutezza; concludeva che gli alimenti di varia qualità sono contrari alla salute e dannosi per il nostro corpo (Seneca, Epistole a Lucilio, lettera 108, §§ 17-18 = Quinto Sestio, fr. 3 Garbarino)
Lucio Crassicio – tarantino di nascita e di posizione libera – faceva Pasicle di cognome, che in seguito mutò in “Pansa”. Dapprincipio era legato alla scena, in qualità di assistente alla scrittura di farse; in seguitò insegnò in una scuola, fino a divenire famoso grazie alla pubblicazione del suo commentario al [poema] Zmyrna (…). Quando però aveva ormai attirato [alla sua scuola] molti discepoli dell’alta società (…), egli abbandonò all’improvviso la sua scuola e divenne allievo del filosofo Quinto Sestio (Svetonio, Grammatici e retori, cap. 18)
“Affondi la nave in porto”. Uno scivola all’età abituale, un altro in età insolita; uno in età aliena, un altro all’età adatta; uno segue il passar degli anni, un altro si ribella alla vecchiaia. – Questa tua vita dissipata non è come vuoi far credere; non simuli codeste follie, le commetti; non reciti la parte dell’amante, ti innamori; non dai mostra di bere, bevi; non dici di dissipare i tuoi beni, li dissipi. – Nessuno, credo, imita i vizi perché li odia. Citami il nome d’un generale che sia scappato dalla battaglia per incuorare l’esercito; mostrami qualcuno che per moderar l’ambizione s’è dato a trafficar cariche; qualcuno che, per fermare una sedizione, s’è messo a sollevar tumulti. I vizi non si reprimono andandone in cerca (Papirio Fabiano in Seneca il vecchio, Controversie, libro II, cap. 6, § 4)
Fabiano, che non era un filosofo come i nostri che montano in cattedra, ma un filosofo vero, all’antica, era solito dire: «Contro le passioni, si combatte d’impeto, non di sottigliezza; il loro fronte non si sconvolge con ferite singole, ma con un attacco». Non sopportava i cavilli: «L’avversario va colpito, non pizzicato» (Seneca, La brevità della vita, cap. 10, § 1 = Papirio Fabiano, fr. 17 Garbarino)
Contro poi a tutte cosiffatte fissazioni, dobbiamo regolarci secondo la natura di ciascuno: di alcuni, quetare le paure vane, come fu di un tale ricchissimo, e che temeva di ridursi alla fame, al quale ogni tanto si annunziavano eredità insussistenti; di alcuni, raffrenare la baldanza, magari anche con le battiture; di alcuni, far cessare con le grida e con le minacce le risa fuori di luogo; di alcuni, stornare i tristi pensieri, al che giovano la musica, i cembali, il rumore. Il più delle volte sarà meglio secondare che contrariare; e a poco alla volta, e non scopertamente, ricondurre la mente del malato dalle sciocchezze a ragionare per bene. Devesi anco talvolta stimolare la sua attenzione: come per esempio con uomini di lettere, leggendo loro un qualche libro, o correttamente se ci si divertono, o a sproposito se ci s’nquietano, e correggendo cominciano intanto a pensarci su; o anche facendoli recitare qualche cosa che sappiano a mente (Celso, Sulla medicina, libro III, cap. 18, § 10)
La tosse poi ordinariamente si manifesta con l’infiammazione di gola, la quale si contrae in più modi; sicché guarita questa, la tosse finisce: tuttavia qualche volta fa malattia anche di per sé; e quand’è invecchiata, difficilmente si manda via. La tosse ora è secca, ora con catarro. Bisogna prendere, un giorno sì e uno no, il decotto d’issopo; correre trattenendo il fiato, ma non dove sia polvere; e leggere a voce alta, il che da principio è impedito dalla tosse, ma in seguito la vince (Celso, Sulla medicina, libro IV, cap. 10, § 1)
Fra le carni dei quadrupedi domestici, la più leggera è quella di maiale, la più grave quella di bove: così fra gli animali salvatici, più che l’animale è grosso, più se ne ha cibo nutritivo (Celso, Sulla medicina, libro II, cap. 18, § 6)
Parimenti Cornelio Celso, il quale dice che scopo della retorica è «parlare in maniera persuasiva nelle questioni civili che sono dubbie». (…) Anche Cornelio Celso sembra essere d’accordo con gli autori citati sopra: queste sono le sue parole: «l’oratore cerca solo il verosimile» e, ancora, più avanti: «il premio per chi adisce le vie legali non è la buona coscienza, ma la vittoria» (Quintiliano, Institutio oratoria, libro II, cap. 15, §§ 22 e 32 = Celso, frr. 1-2 Marx)
Un certo Celso ha raccolto in sei non esigui volumi le opinioni di tutti i filosofi che, sino alla sua epoca (né avrebbe potuto fare di più), avevano fondato diverse sette. Non ha formulato alcuna confutazione, ma si è limitato a dare una semplice esposizione delle dottrine di ciascuna di esse, trattandole con una sobrietà tale da utilizzare le parole adeguate senza lodare né criticare, senza acconsentire né difendere, ma così da ricorrere a quelle che bastano per esporre e descrivere. Menzionò circa cento filosofi; ma non tutti tra questi furono iniziatori di una loro propria scuola, poiché lo scrittore credette doveroso di non tralasciare nemmeno i discepoli che seguirono i loro maestri senza mai dissentirne (Agostino, Sulle eresie, prefazione, § 5 = Celso, T12 Marx, fr. 1 Garbarino)
[Le opere di Seneca sono citate da Giovanni Reale (a cura di), Seneca: Tutte le opere. Dialoghi, trattati, lettere e opere in poesia, Milano, Bompiani, 2000. La traduzione italiana del passo di Svetonio è mia, mentre quella del trattato medico di Celso è di Angiolo Del Lungo (a cura di), Aulo Cornelio Celso: Della medicina, presentazione di Dino Pieraccioni, Firenze, Sansoni, 1985. Il libello Sulle eresie di Agostino è consultabile al sito: http://www.augustinus.it/italiano/eresie/index.htm . La citazione da Quintiliano è tratta da Adriano Pennacini (a cura di), Quintiliano: Institutio oratoria. Volume I, Torino, Einaudi, 2001. Una selezione dei resti delle opere di Quinto Sestio, Papirio Fabiano e Celso si trova in Giovanna Garbarino (a cura di), Philosophorum Romanorum Fragmenta usque ad L. Annaei Senecae aetatem, Bologna, Pàtron, 2003. Altre testimonianze e altri frammenti su/di Celso si trovano tuttavia in Friedrich Marx (a cura di), A. Cornelii Celsi quae supersunt, Hildesheim et alii, Olms, 2002. Infine, lo studio La scuola dei Sestii di Italo Lana è pubblicato in AA.VV., La langue latine, langue de la philosophie. Actes du colloque de Rome (17-19 mai 1990), Rome, École Française de Rome, 1992. pp. 109-124]Enrico Piergiacomi