To be or not to be Roger Bernat, lo spettacolo della compagnia romagnola Fanny & Alexander andato in scena al Teatro India di Roma. Recensione
Noi che la quarta parete l’abbiamo vista centinaia, forse migliaia di volte ergersi e crollare, che le giornate le abbiamo cominciate o finite nei foyer, che ci indigniamo per la necessità del riconoscimento culturale, che lamentiamo l’accrescersi delle lacune nello spessore, nella ricerca e nel sostegno di entrambi. E poi noi che l’attore lo sappiamo, a seconda dei casi, paradossale, maestro della reviviscenza emotiva, atleta del cuore, biomeccanico, supermarionetta, abitante dello spazio vuoto, creativo, straniato, d’avanguardia, di tradizione, fiamma protetta da un involucro di vetro per l’atto totale di un teatro povero, dotato della terza natura. Noi per cui Amleto è l’origine e la fine, un topos, un progetto fallito al Teatro d’Arte di Mosca nel 1912, frame vertiginosi di scale con in cima Sir Laurence Olivier, derivazione costiana nella declamazione di Vittorio Gassman, il percorso da Shakespeare a Laforgue di Carmelo Bene, emblema psicanalitico, metafora per eccellenza, confronto immancabile, ennesima e gratuita messinscena. E ancora noi che questa città l’abbiamo vista brulicare e latitare, riempirsi e svuotarsi di luoghi, di necessità e reazioni, noi che ci siamo trovati e poi abbiamo deciso di camminarla tra le poltrone e gli archi di proscenio, comunque, di leggerla tra i palcoscenici veri e propri e quelli che lo sono diventati, tra gli spazi istituzionalmente deputati e quelli divenuti per vocazione una, la scena. Appresa notizia di altre repliche altrettanto scariche, nella sala Teatro India di Roma noi ci siamo contati in diciannove per To be or not to be Roger Bernat dell’ensemble romagnolo Fanny & Alexander; e il resto, a quanto pare, è silenzio.
Lo spettacolo è un organismo complesso consistito dal tema dell’identità, dipanato su più piani, alcuni accessibili nell’immediato, altri di matrice prettamente concettuale; nasce dall’incontro tra Chiara Lagani e Luigi De Angelis (qui rispettivamente drammaturga e regista) con Roger Bernat durante un workshop a Wroclaw.
Il dispositivo adoperato è quello di una conferenza: un tavolo al centro con la targhetta del nome e la scatola cranica di un dinosauro, lo schermo di un proiettore in alto a campeggiare e quattro sedie disposte sui due lati della scena. Passando dall’italiano al francese, dall’inglese allo spagnolo, Marco Cavalcoli, accompagnato a tratti non più dal teschio ma dalla riproduzione della testa dell’artista catalano, accompagna a sua volta il pubblico tra le maglie di citazioni o riferimenti amletici più o meno mainstream (Kenneth Brannagh, Franco Zeffirelli, Leo de Berardinis fra gli altri, con l’unica interpolazione degli Insulti al pubblico di Peter Handke) passando per doppiaggi (l’ironica versione Simpson), tracce audio e accenni tematici, fino alla convocazione diretta delle sue voci o dei sui corpi, in sala o sulla scena.
Permettendo a De Angelis e Lagani di iniziare a sondare la prospettiva di un futuro lavoro sul testo shakespeariano – da tempo nei loro progetti – tramite l’utilizzo di una serie di interviste, il profilo dell’artista catalano (in Italia sconosciuto ai più) diviene quasi un Cavallo di Troia, contenitore ed elemento di sfondamento, feritoia che apre una breccia nelle mura della fruizione, messo in relazione con l’eterodirezione, nella quale gli spettatori stessi vengono invitati a prendere parte e responsabilità.
Centrale nella ricerca della compagnia, si legge come l’eterodirezione sia «un processo di scrittura live in cui il corpo dell’attore è una strana penna vigile che comunica a chi scrive le sue intenzioni attraverso sottili indicazioni di senso e sentimento. È tecnicamente la somministrazione al soggetto-attore di alcuni stimoli specifici, testuali e gestuali, per tramite di in ear-monitor wireless, a cui egli reagirà opponendo una specifica resistenza creativa». Principio di un’indagine quindi, ma anche restituzione di un risultato: come suggerito dal titolo, Amleto e Bernat si fondono nella figura di un eccellente Cavalcoli per traghettare la visione sino al centro della riflessione sulla natura dell’attore e su quella dello spettatore.
Oltre la visione appunto, un passo subito prima e uno subito dopo, perché qui la performance – articolata e scarnificata al contempo brillantemente – si assiste, tutt’al più vi si assiste assistendo agli infiniti, eterni, pochi noi stessi.
Il dubbio imperituro del principe di Danimarca investe l’artefice canonico dell’azione in palcoscenico, per essere tuttavia ricondotto in platea e focalizzato nella scelta sottintesa alla presenza stessa dello spettatore: la responsabilità dell’esposizione e quella dell’osservazione arrivano quindi ad equivalersi nell’idea stessa del termine agire.
Marianna Masselli
Visto a Roma, Teatro India, dicembre 2016
TO BE OR NOT TO BE ROGER BERNAT
una conferenza spettacolo di Fanny & Alexander
ideazione Luigi de Angelis e Chiara Lagani
drammaturgia Chiara Lagani
regia Luigi De Angelis
con Marco Cavalcoli
organizzazione Ilenia Carrone
amministrazione Marco Cavalcoli, Debora Pazienza
produzione E/ Fanny & Alexander