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Buried Child. Ed Harris nell’America crudele di Sam Shepard

Ed Harris in scena al Trafalgar Studios di Londra con Buried Child, testo del ’79 di Sam Shepard, al fianco di Amy Madigan. Recensione

Ed Harris in Buried Child, Trafalgar Studios, photo Johan Persson
Ed Harris in Buried Child, Trafalgar Studios, photo Johan Persson

Sprofondato. Apatico. Senza scampo. Ed Harris, alias Dodge, è tutt’uno con la stoffa di quel sofà, da cui cattura lo sguardo e l’intera sala da fermo. Il suo corpo è quasi una protesi del divano in un interno rurale domestico americano, con il berretto da baseball grigio a sua volta protesi della testa e gli arti superiori ed inferiori ridotti a floscia stoffa d’indumenti da ex-contadino in pensione. Dove si trova? In una fattoria degli orrori, abitata da una famiglia non proprio idilliaca, “disfunzionale”, che con la sua progenie ha seppellito nel retro anche propri sogni, ogni scopo o ragione di vita. Sprofondata in quel nero passato, è rimasta lì, immobile in un frame – un interno occupato da mostri quotidiani e reali, due genitori e due figli maschi già grandi, Tilden e Bradley – una volta per sempre.

la locandina
la locandina

Questo il cuore di Buried Child, il testo di Sam Shepard, vincitore del Premio Pulitzer nel 1979, ora ai Trafalgar Studios di Londra.
Insignito della Gold Medal for Drama dell’American Academy of Arts and Letters nel 1992, sceneggiatore per Antonioni con Zabriskie Point, per Wenders (Paris, Texas) e Altman co Fool for Love, Shepard è autore drammatico, ma si accosta alla scena da autore cinematografico. Il suo testo contiene almeno quattro ambienti tra interni ed esterni (come l’orto nel retro, la veranda anteriore) nei quali personaggi (reali o meno) si muovono o attraverso i dialoghi in un’articolazione e divisione di piani in verticale (le scale che conducono al piano superiore) ed orizzontale (gli ambienti a destra e a sinistra della scena principale), con inquadrature e movimenti di camera invisibili già inseriti nelle battute. In breve, la sua tessitura drammaturgica è già un set.

foto Johan Persson
foto Johan Persson

Acclamato unanimemente dalla critica britannica come “Play of the year”, Buried Child è un viaggio à rebours negli oscuri segreti della “profonda America” negli anni di Jimmy Carter. Shepard propone un ritratto al ghiaccio liquido, surreale, sottilmente macabro e intriso di humor gotico, che, lungi dall’essere un “memory play”, è un esempio eccellente di close-up sull’American folk horror in tempo di recessione. Vero negli anni ’70 come nella Trump-era? Così sembra.
Un dark drama dunque in cui il veleno della colpa e delle sue conseguenze letali su tutta la famiglia sono diluite in un sinistro, acido ritorno alle origini del giovane nipote Vince, il figlio di Tilden, che con la fidanzata californiana Shelley si reca, dopo sei anni di assenza, in visita nella famiglia d’origine, la quale non lo riconosce e lo ignora come un estraneo. Siamo in Illinois ed Harris è un settuagenario patriarca, un contadino in pensione, la cui identità è definita da tosse cronica, whisky, coperta e schermo TV. Il suo torso sembra sparire e il volto è seminascosto da una barba di mesi. Da qui, si dipana un percorso in tre atti che costituiscono ognuno gli stadi di una discesa agli inferi, intrisa di una vena di sadica follia, come il mezzo scalpo che Bradley – il figlio con una gamba artificiale – fa al padre quando gli lascia senza batter ciglio due strisce di sangue sul cranio dopo avergli rasato i capelli.

foto Johan Persson
foto Johan Persson

Buried Child lanciò Shepard nel gotha degli autori teatrali USA con chiare influenze dal Miller di Death of a Salesman e dall’Albee di Who’s afraid of Virginia Woolf?. I critici hanno ravvisato diversi echi e punti di contatto con Pinter (The Homecoming) e con l’impianto da moderna tragedia greca tipico di O’Neill, che in questo testo viene da Shepard riversato nella scrittura in esplosioni di ilarità surreale, grottesca, in particolare ad opera del protagonista Dodge e di suo figlio Tilden, che colpiscono lo spettatore alle viscere quasi fossero colpi di arma da fuoco. Un testo dall’impianto e dall’architettura maestosa e densa, con continui sottotesti dall’eco mitologico grazie ai quali il non detto prorompe con forza e inaudita violenza repressa nell’arco delle due ore e mezza di spettacolo.
Lo spettatore, giunto alla fine, è provato. Sfidato e volutamente spaesato da iati logici, ambiguità di senso, è messo pesantemente alla prova nelle quasi tre ore di spettacolo nel colmare lacune e salti temporali del testo e nel far fronte alle progressive disfunzionalità dei personaggi. Data la densità di scrittura e temi, balena l’idea che per Shepard (ed Elliott) a dover essere inchiodato, senza scampo, sia proprio lui, lo spettatore.

foto Johan Persson
foto Johan Persson

Ed Harris, veterano di Hollywood, fa il suo debutto nel West End di Londra al fianco di Amy Madigan, con questa produzione targata stelle e strisce, il New Theatre Group, diretta da Scott Elliott, abile nel mettere in luce i mille rivoli del testo e nell’orchestrare sia il mood di ciascun atto che il climax finale. Qui l’eco della tragedia greca rivive tra le braccia di Tilden che ricongiunge lo scheletro sepolto del bimbo alla madre morente aprendo le porte al Destino.
Harris è un mattatore nel dominare l’intero spettro di quiet acting. Costruendo il personaggio per strati – inabilità di ‘fare’ un’azione qualsiasi, rimozione di un passato insostenibile e apatia assoluta – lo fa funzionare come un ‘gorgo’. Un filo a piombo, inesorabile, nel corso dei tre atti, avvolge Dodge e con lui gli spettatori come una spirale e li fa sprofondare in un annichilimento totale. La sua prova d’attore è magistrale nel regolare  precisamente la sordina, in una recitazione cui è stata quasi completamente sottratta la linea delle azioni fisiche. Harris a malapena si muove nello spazio, ma Dodge risuona forte ovunque poiché contiene, latenti, tutte le azioni che, messe a tacere, risultano amplificate. Il suo corpo dilatato abita l’intero spazio del teatro: scena e sala.

Shepard va al cuore dell’American dream e lo mette a nudo. Se una volta si poteva guardare ad esso con fiducia e ottimismo come ad una “land of plenty”, ora, sembra dire, si è trasformato in un quadro amaro, composto da conflitti e lacerazioni profonde, in un Paese che si è rivoltato contro se stesso e i cui family old gods sono ormai caduti. Per sempre. Niente è rimasto dei miti fondanti dell’America delle origini che ha avvelenato le proprie radici uccidendone la linfa vitale. Un cuore nero palpita al centro del dramma a far rivivere un’America divisa, disillusa e sprofondata nel vuoto, come la linea maschile di questo nucleo familiare senza scampo.

Carla Di Donato

Trafalgar Studios, Londra, Dicembre 2016

BURIED CHILD
di Sam Shepard
diretto da Scott Elliott
Con Ed Harris, Amy Madigan

info cast completo: http://www.buriedchildplay.co.uk/cast

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