Al Teatro Argot Studio va in scena La Tempesta di William Shakespeare in un progetto di Maurizio Panici. Recensione
«A bordo di una nave. Fragore di tempesta. Tuoni e lampi». Il vociare del pubblico entrando nella sala del Teatro Argot Studio si sovrappone allo stridio degli uccelli, al paesaggio sonoro di Giovanni Di Giandomenico che lascia presagire il fragore; intanto in scena, nella penombra dell’isola, aspettano Prospero, il legittimo duca di Milano, sua figlia Miranda e lo spirito Ariel. Quando finalmente arriva il buio, le didascalie di quella che è considerata l’ultima opera di William Shakespeare si riversano sul palcoscenico bagnate dalle luci di Giuseppe Filipponio: «A bordo di una nave; poi, un’isola disabitata». La Tempesta di Shakespeare si abbatte così tra le mani di Maurizio Panici che lascia il pubblico e l’equipaggio della nave di Antonio, usurpatore del ducato di Milano, in balia del dramma, della commedia, ma soprattutto della parola in quanto tale che dopo il naufragio sembra approdare anch’essa sull’isola, lambire i piedi e farsi essa stessa mantello di un Prospero che proprio nella parola ripone la sua potenza.
Al netto della riduzione che esalta del dramma in cinque atti non il contesto storico, non le lunghe esposizioni di antefatti ma una fruizione più agevole e simbolica, nel quale il contesto dell’opera si fa metafora del contemporaneo e la visione è tesa fortemente a interagire con la sensibilità del pubblico, la vicenda è quella dell’esiliato Prospero. In possesso di arti magiche dovute a una prodigiosa conoscenza, stigmatizzata in scena da una pila di libri al suo fianco, il vero duca di Milano dopo esser stato spodestato da suo fratello si è rifugiato su un’imprecisata isola del Mediterraneo; qui, usando la propria arte con la quale controlla anche il selvaggio schiavo Calibano, desta nelle onde un “tale fragore di tempesta” da rovesciare gli incolumi – ma colpevoli – naufraghi sulla sua isola; separandoli tra loro e facendo così innamorare sua figlia del principe di Napoli, Ferdinando, per unirla con lui in matrimonio e riportarla al posto che le spetta.
La scena, un non-luogo di reietti dal fondale d’impatto cui le luci conferiscono di volta in volta tonalità in minore o maggiore, presenta due livelli separati: un piano di sopra sul quale ordisce un misurato Prospero (Luigi Diberti) aiutato da Ariel, spirito al suo servizio fino alla sesta ora sotto promessa di libertà; e il piano di sotto, dove Stefano e Trinculo, due marinai della ciurma in balìa del naufragio, dell’alcol e del dialetto napoletano suggerito da Panici – come voce e furor di popolo – incontrano Calibano (Pier Giorgio Bellocchio), schiavo di Prospero e figlio di una terra che non è più sua se non nel fango su braccia e gambe e nel livore del viso, in quella rabbia che nella profonda sconfitta lo rende mostro. Il sudiciume con il quale Bellocchio veste egregiamente lo schiavo è quello dal quale siamo chiamati ad emergere oggi, privati di quel sapere che determina il controllo.
La versione di Panici, che enfatizza l’ironia del dramma senza diluirne la vocazione poetica, non si limita dunque a quello che è considerato in parte un testamento artistico del Bardo prima del ritiro dalle scene: «Ho lavorato due anni sulla riduzione di questo testo, insistendo molto sulla parola alla quale sono rimasto fedele se non per l’innesto dei versi di W.H. Auden. C’è molto della società odierna in quest’adattamento – dice il regista dopo lo spettacolo – ho puntato a lavorare su un testo che parli profondamente al pubblico. Dobbiamo ricominciare a ricostruire la persona, altrimenti oggi rischiamo di dissolverci».
E allo stesso modo il dramma parla con il pubblico, mentre Miranda e Ferdinando si innamorano, mentre Calibano ruggisce e i naufraghi si attaccano a una bottiglia come illusorio legno nella tempesta che invece va vissuta come atto di rinascita. Lì, in alto, i microfoni sono solo per chi possiede il dono della parola. «Canta, Ariel, canta dolcemente, pericolosamente», scrive Auden e recita Prospero, e l’Ariel diretta da Panici, un’ispiratissima Claudia Gusmano, istrionica e seducente le segue: canta la sua Another Brick in the Wall – libertà! Della e dalla parola – e si muove in quella separazione dei corpi che vive con Prospero. Lei gambe e lui braccia da tendere ai libri prima e agli uomini poi; lei spirito aereo lui uomo che abbandona il trono della magia, che scende nella terra liberandosi del mantello con cui si erge a demiurgo, a consacrare il dramma di quel Prospero che diventa uomo e afferra tremando “il silenzioso passaggio dello sconforto”, riconciliandosi così con la società degli uomini.
Sì, è questo il famoso testo di Shakespeare in cui si dice che «siamo fatti della stessa sostanza di cui son fatti i sogni»; eppure stavolta sembra di capire che lo saremo solo fino a quando non ci saremo spogliati del potere magico della parola che tutto trasforma e, semplicemente, la renderemo accessibile a tutti, la useremo per nominare la realtà e il perdono che questa ci chiede. «E come voi vorreste esser perdonati di ogni colpa, fate che io sia affrancato dalla vostra indulgenza».
Luca Lòtano
visto al Teatro Argot Studio, Roma – novembre 2016
di William Shakespeare
un progetto di Maurizio Panici
con Luigi Diberti, Pier Giorgio Bellocchio, Matteo Quinzi, Claudia Gusmano, Valentina Carli,Riccardo Sinibaldi, Antonio Randazzo
scenografia Francesco Ghisu
costumi Anna Coluccia
light designer Giuseppe Filipponio
musica Giovanni Di Giandomenico
aiutoregia Maria Stella Taccone
datore luci Paolo Meglio
con la collaborazione di Alessandro Carbonara