Amore e resti umani, allestimento diretto da Giacomo Bisordi del testo di Brad Fraser, è tornato in scena al Teatro dell’Orologio. Recensione
I tardoadolescenti, i pre-adulti, gli ancora giovani: piaccia o no, tutti in qualche modo figli putativi o letterali degli anni ’90. Tutti quindi già figli di un dopo e ancora figli di un prima, nati sotto l’egida catodica, destinati poi a navigare nel web, a viaggiare low cost con le playlist negli auricolari. Progenie che nuota nell’oceano di un’epoca liquida, a tratti disorientata si trova piuttosto a sguazzare in uno stagno, deliberatamente o meno, con l’anima squagliata, la testa in superficie e l’inganno autoinflitto di conoscere gli abissi, l’apnea, nonostante la palese insufficienza di fiato.
Resti Umani Non Identificati e la Vera natura dell’Amore, testo del canadese Brad Fraser datato 1989, potrebbe offrirsi come spaccato che apre sulla gestazione, sul principio di tale tipo di ritratto, affastellando all’interno del tessuto drammaturgico una mistura asprigna di disagi emotivi e personali non inconsueti per il panorama narrativo contemporaneo, contrappuntati da appoggi di distacco sarcastico. Il crinale è quello di un decennio che ha provato a disinnescare nell’estetica pompata, sostanzialmente reazionaria dello yuppie le rimanenze masticate (spesso molto male) della beat generation, la prossima mitizzazione delle agitazioni politiche e i rigurgiti dell’hard rock, consegnando al decennio successivo la ripresa del pulp, i racconti cult tascabili, le dita sul game boy, la consacrazione del grunge, il mare magnum dell’indie, il post-punk, il post-rock.
Amore e resti umani, allestimento diretto da Giacomo Bisordi, torna in scena sul palcoscenico del Teatro dell’Orologio dopo la scorsa stagione e a distanza di oltre due anni dal debutto. Sette individui, quattro uomini e tre donne, rincorrono e rifuggono il processo identitario sessuale e sentimentale in un contesto metropolitano – Edmonton – asfittico, rabbuiato dalla figura di un serial killer che continua a mietere vittime. David (Giuseppe Sartori), barista omosessuale votato alla promiscuità, vive insieme a Candy (Valentina Bartolo), critica letteraria con disturbi dell’alimentazione e una buona tendenza autodistruttiva. Il primo insidia l’imberbe collega Kane (Francesco Sferrazza Papa) mentre continua a covare un sentimento mai compiuto per Bernie (Francesco Petruzzelli), migliore amico più che ambiguo con un matrimonio in rovina; la seconda invece si ritrova incastrata fra l’amore saffico dell’appassionatissima e dedita Jerry (Giulia Trippetta) e Robert (Federico Lima Roque), barista semi-idiota che monta la favola prospettica di una relazione per portarsela a letto prima di vedersi assestare il ceffone alla confessione di essere sposato. E poi Benita (Cristina Poccardi), santera e battona, alterna sedute di lettura della mente e dello spirito a sedute video con storie noir condite da un erotismo grottesco. Divide et impera la paura, la dittatura delle sue declinazioni, dei suoi meccanismi consci e inconsci.
Il rosso di una macchia ematica trionfa sulle lenzuola del futon al centro della scena dove si consumano gli amplessi, i rapporti e gli incroci delle vicende dei protagonisti, come a dire che l’assassino è vicino, ma anche che l’assassinio si compie tra ognuno di loro, insieme e singolarmente, passaggio dopo passaggio. L’uso dello spazio performativo, una bidimensionalità di base divisa fra azione anteriore e attesa al fondo, si vuole reticolare e il più dinamico possibile. La messinscena, inquadrata in una concezione registica chiara a sufficienza, beneficia fuori da ogni dubbio di una capacità attorale abbastanza omogenea. Gli interpreti si concedono senza resistenze al tono generale: all’uso del linguaggio ultra-metrpolitano, alla costruzione dell’immagine, allo sforzo anatomico, alla nudità, in un procedere serrato e conservando un equilibrio drammatico non semplice di restituzione delle deviazioni interiori, ironia e dell’atmosfera da giallo. Mantenere il ritmo, incessanti, senza pause, senza respiro, da un punto all’altro, da un letto all’altro, da un corpo all’altro, da un sangue all’altro, da un sentimento inconsistente all’altro, sempre illusi, sempre inadeguati, ogni volta con la consuetudine della sorpresa, con l’ipocrisia violenta della vigliaccheria .
Fin quando possibile, scegliere di non riconoscersi; fin quando possibile, preferire la paura, giustificare la disgregazione, ammantarla pure di magia; fin quando possibile, evitare di guardarsi e guardare i brandelli, negare la vista cadaverica. Perché, rincorsi da se stessi, prima o poi il moto perpetuo è destinato ad arrestarsi, l’omicida, volente o no, ad essere scoperto. La presa di consapevolezza avrà la detonazione ineluttabile di un colpo di fucile. Un’incertezza resta sulla capacità del testo di raccontare la frammentazione identitaria sfondando la volta del tempo e riuscendo a rendere di essa le germinazioni odierne, complice una conclusione nella quale – raggiunta la tirata di massima distensione – la situazione drammaturgica precipita in una caduta, in quella retorica dell’emotività del disagio tipico della generazione x.
Marianna Masselli
Visto a Roma, ottobre 2016
AMORE E RESTI UMANI
di Brad Fraser
traduzione Cosimo Lorenzo Pancini
con Giuseppe Sartori \ David, Valentina Bartolo \ Candy, Francesco Petruzzelli \ Bernie, Cristina Poccardi \ Benita, Federico Lima Roque \ Robert, Giulia Trippetta \ Jerri, Francesco Sferrazza Papa \ Kane
regia Giacomo Bisordi
scene Paola Castrignano’
supervisione ai costumi Anna Missaglia
luci Javier Delle Monache
elettricista Marco D’Amelio
assistente alla regia Cristina Pelliccia
regista assistente Fausto Cabra
musiche originali Mirko Fabbreschi
ritratti fotografici Marco Montanari
assistente allo shooting Cecilia j. Santoni
grafica Studio Kmzero
produttore esecutivo Cristina Poccardi