A Bolzano Danza il coreografo Emilio Calcagno presenta il suo nuovo lavoro Catania,Catania. Recensione
Catania, città del sole e della cenere. La lava nera dell’Etna e il candore della sua neve è solo una delle profonde contraddizioni, delle barocche stravaganze di una città che coniuga perfettamente la sua ammiccante bellezza con una cronica indolenza. Così è la Sicilia, la terra natale di Emilio Calcagno, danzatore italiano emigrato in Francia alla metà degli anni Ottanta. Una lunga carriera trascorsa al Ballet Preljocaj gli ha permesso di sviluppare la propria ricerca coreografica e di scegliere di fondare, nel 2006, la propria compagnia. Oggi, con Catania Catania, il coreografo catanese è di ritorno in quella che, nonostante il tempo trascorso oltralpe, è ancora “casa”, non solo luogo di origine, ma anche di riscoperta, terra dolceamara, affascinante e potente in ogni sua espressione.
Bolzano Danza, uno dei co-produttori dello spettacolo, è stato anche il festival del debutto per questa nuova produzione che offre al pubblico un ritratto intenso, partecipato ed eclettico di una città che sembra attraversare il tempo rispondendo all’esortazione tipicamente siciliana “moviti femmu!” (letteralmente, “muoviti fermo”).
I danzatori in scena sono un gruppo di giovani, internazionali e straordinariamente compatti, capaci di dispiegare dai propri corpi energie gravi e sotterranee che sfiorano, per una volta senza mettere in crisi chi si trova a scrivere questa parola, una “verità” dolente e gioiosa. La contorsione architettonica delle facciate barocche catanesi va di pari passo con la spontaneità dei corpi quasi subito esposti a pelle nuda, in scena, a un vocabolario di gesti che compone un’antologia etnografica delle più complete. Gesti, modi di dire, espressioni e atteggiamenti sono raccolti nella drammaturgia dello spettacolo e restituiti allo spettatore senza nessun rischio di caricatura.
All’ingresso in sala, il pubblico muove i propri passi sulla registrazione audio della tristemente famosa intervista al figlio di Totò Riina andata in onda in televisione qualche mese fa. La scena è spoglia, illuminata da un reticolo di fari sospesi a diffondere un’atmosfera calda. Con lo stesso aplomb di un equilibrista che passeggia sul filo, un danzatore tiene in equilibrio sulla testa una caffettiera. Di seguito, la scena si popola via via di oggetti, cibi, segni che contribuiscono a comporre non una natura morta, ma un ritratto caustico come lava che al suo passaggio attiva una vitalità talmente incandescente da oltrepassare i corpi fino a fondersi con tutti gli elementi che i danzatori trasportano sul palco. Tra la dimensione fonte d’ispirazione dello spettacolo – la città etnea – e il risultato si avvera una relazione sincera che è figlia di un processo creativo puntuale e svincolato da ogni formalismo espressivo. Nonostante questo, i corpi sono disciplinati in danze ferine, movimenti densi di lentezza e gesti quotidiani che a tratti sembrano stravolgerli, restituendo a chi vi assiste la percezione di una raggiunta disponibilità quasi totale del danzatore non a “farsi interprete”, ma a “farsi luogo”. Ogni segno è un’eco tagliente che la compagnia integra nella propria danza talvolta come parte integrante, talvolta lasciandola semplicemente apparire e poi cadere, riconsegnando al corpo e alla voce la sua supremazia. Il beat elettronico che scandisce il tempo è terrestre, incisivo fino a diventare techno come quelle ricorrenti spinte del bacino che ammiccano a una sessualità sfrenata e allo stesso tempo interdetta, vietata. Il gruppo delle danzatrici è dominante come un matriarcato collettivo, potente, austero, carico di dignità anche quando i piedi affondano in un cumulo di spazzatura. La religione è un rimando necessario, superstizioso quanto basta e ancora, espressione di un femminile sacro-santo che inneggia a un’idea di corpo profferta tanto agli uomini quanto a Dio. Poi c’è una chiara idea di gruppo, con i suoi amori e i suoi conflitti, che come un clan si muove in un insieme sempre fuggente delineando sul palco traiettorie precise e tuttavia libere di fiorire in immagini dalla composizione leggibile. Le azioni in proscenio sono quasi sempre sostenute da un controcanto più distante, quasi sul fondale ma mai dispersivo negli occhi dello spettatore che dalla coreografia è costretto, per il desiderio di non perdersi nulla, ad aprire quanto più possibile lo sguardo.
Il richiamo alla famosa produzione del Tanztheater di Pina Bausch del 1989, Palermo, Palermo, è una suggestione che sfonda il limite della similitudine del titolo e rinfresca la memoria trentennale di un legame stretto, sempre convincente, tra gli istinti creativi del teatro-danza e questa cosa nostra, quest’isola dagli infiniti, meravigliosi ossimori. Tutto cambia, nulla cambia: dal 1989 ad oggi, lo sguardo che gli artisti portano a questa terra è ancora capace di rendere vivo un sentire che si affaccia emotivamente a quella caduta degli idoli – il denaro, la religione, l’amore, la morte – che già Pina Bausch aveva scelto come tacite chiavi di volta del suo spettacolo che si apriva con la caduta di un muro e finiva con la discesa dal cielo di alberi capovolti. Rispetto a questo monumento della storia della danza, Catania, Catania è un nuovo sacro mediterraneo, un tentativo, a nostro avviso riuscito, di riverbero, non un richiamo malizioso. Allora cadevano muri che dividevano a metà l’Europa, oggi – mentre ci apprestiamo stupidamente a ricostruirli – Calcagno ci regala l’immagine di questi giovani danzatori europei, conoscitori della propria cultura d’origine e per questo liberi, che alla fine del baccanale abbandonano la scena con mantelli dai bagliori dorati. Sono le coperte termiche di emergenza dei migranti che ogni giorno affrontano il mare pur di salvarsi, e qui ci viene offerta la possibilità a noi che osserviamo, di riconciliarci scomodamente, di essere spettatori di tanta vitalità in cui in un modo o nell’altro ci riconosciamo, forti del piacere della danza e divertiti da una cultura misteriosa disposta ad offrirsi agli occhi, finché non giunge quel segno a disturbarci, a ricordarci chi siamo. Se quel qualcosa di appuntito che abbiamo percepito trova posto in noi sotto di forma di qualcosa di diverso dell’assurdo, è perché nello stare a guardare siamo caduti inconsapevoli anche noi nel nostro lato più scomodo e oscuro, siamo entrati dentro al vulcano di questa creazione, nudi come loro a interrogarci su chi siamo, su dove andremo.
Gaia Clotilde Chernetich
visto a Bolzano Danza – luglio 2016
CATANIA, CATANIA
Coreografia Emilio Calcagno
Musica Rosario Pierre Le Bourgeois
Luci Hugo Oudin
Interpreti Annalisa Di Lanno, Flaminio Galuzzo, Giovanfrancesco Giannini, Leonardo Maietto, Coralie Meinguet, Gloria Pergalani, Eve Stainton, Luigi Vilotta, Rosada Letizia Zangri, Giulia di Guardo
Production Compagnie ECO – Emilio Calcagno / Coproduction Festival Bolzano Danza – Tanz Bozen / Viagrande Studios, Centro di ricerca, formazione e produzione per le arti performative / Espace des Arts, Scène nationale Chalon-sur-Saône / L’Archipel, Scène nationale de Perpignan / Accueil résidence Teatro Biondo Palermo / Avec le soutien de la Spedidam / Fondation Nuovi Mecenati / Institut français Italia / La compagnie est soutenue par le Ministère de la Culture et de la Communication – DRAC Hauts-de-France / par la Région Hauts-de-France