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Il teatro e la frontiera. Conversazione con José Sanchis Sinisterra

Conversazione con José Sanchis Sinisterra drammaturgo, regista e maestro della scena teatrale contemporanea spagnola.

Foto www.naque.es
Foto www.naque.es

Leggi il Manifesto del Teatro Fronterizo

Sono le stesse parole di José Sanchis Sinisterra a raccontare ed attraversare  il pensiero e l’attività del Teatro Fronterizo da lui fondato nel 1977 attraverso alcuni dei concetti chiave della sua poetica. Intraprendo questa scrittura dopo aver conosciuto e conversato con l’autore. Mi accoglie la pioggia quando arrivo in Lavapies. Colori contrastanti, odori sottili ed umidi riempiono le strade di questo barrio multiculturale. Trovo La Corsetteria, sede madrileña del Teatro Fronterizo e luogo di condivisione e sperimentazione. Avviene qui il mio incontro con José, il quale con estrema naturalezza e gentilezza mi apre le porte del suo tempo e della sua Cabeza. Colpisce la politica dell’accoglienza, attitudine coerente con l’estetica del suo teatro. È un uomo dagli occhi brillanti, si dona generoso alla mia curiosità impartendomi una lezione di umiltà e di vita.

Il nome e l’ideologia del Teatro Fronterizo muovono dal concetto di Frontiera; la sua gestazione ha luogo in un periodo rivoluzionario, un momento di grande presa di coscienza sociale, aspetto che risulta decisamente contemporaneo; ma qual è la strada che conduce alle soglie di questo teatro?

Il mio concetto di frontiera arriva da lontano, da quella che potremmo metaforicamente chiamare frontiera tra narrativa e teatro.
Ho iniziato a lavorare su questo concetto nel ’77 quando fondai il Teatro Fronterizo a Barcellona: erano i tempi in cui il teatro di parola era considerato decadente e anacronista, era il momento di un teatro del corpo, del gesto, dell’immagine e della creazione collettiva. Io vengo dalle stanze della letteratura, ritenevo folle un teatro che rinunciasse alla dimensione letterale, al testo drammatico e che si presentasse sulla scena come un momento creato solamente dal corpo degli attori accompagnati dalla musica e dai suoni. Non consideravo la drammaturgia testuale una zavorra o qualcosa di superato, così come si riteneva – a volte ancora oggi – in molti gruppi postdrammatici o in quello che viene chiamato teatro performativo. C’è da riconoscere che in quegli anni circolavano testi molto pensati, rinchiusi in determinati canoni che lasciavano poco spazio all’immaginazione del regista, degli attori e dello scenografo, incastrati e costretti da una forma d’autorità dell’autore. Questo faceva sentire il testo teatrale un corsetto. Si inizia quindi a creare collettivamente il testo, si prendono materiali testuali di altra natura e si convertono in spettacolo. Però si può rivedere l’idea e la forma del testo drammatico, rompendone i canoni e gli stereotipi, indagando la teatralità partendo dal testo. Io ho fatto riferimento alla narrativa, ramo della letteratura che perennemente si evolve e si innova. Ho quindi applicato i procedimenti formali della narrativa al testo drammatico, scavalcando i canoni, i modelli e le modalità che fanno del testo drammatico, appunto, un corsetto.

L’attività Fronteriza è collocabile in quel territorio del teatro definito “politico”. La tua definizione di teatro politico può esser definita come “arte politica senza parlare di politica”.

Partiamo da un distinzione: ci sono concetti appartenenti al teatro politico che sono invalicabili. Anche se forse la prima domanda da porsi è “cos’è politico?” La politica è su più piani della realtà, della vita e della soggettività. C’è un primo concetto, quello più immediato, in cui il tema, i personaggi, la storia, in qualche modo affrontano il tema della vita politica, sociale ed economica, la moralità degli esseri umani, la questione del potere, l’oppressione, la libertà, i momenti storici in cui il potere politico ha più rilevanza. Nella seconda visione, che è anche il mio punto di vista, il fattore politico sta nella forma, nell’estetica. Si può anche raccontare una storia di grande evidenza politica e visibilmente di denuncia, ma se lo si fa con una forma vecchia, canonica e conservatrice non ha alcun effetto. Invece attraverso una rivisitazione formale, tu puoi modificare la percezione della gente. In questa seconda concezione l’opera in sé non tratta di politica però ti obbliga a considerarla tale per la componente umana, perché specchio dell’imprevedibilità del destino, e ti converte in uno spettatore attivo della vita. Le percezioni si sgretolano, si vedono le cose senza più straniarsi o scandalizzarsi. L’arte che sia politica senza parlare di politica può aiutare a guardare, ascoltare e percepire la realtà in un modo che ti aiuti a sorprenderti, ad interrogarti, e anche tutto questo è politico.
Credo che questa prospettiva politica si sviluppi su tre dimensioni: il contenuto del tema dell’opera, i personaggi e la forma artistica attraverso la quale questi contenuti arrivano allo spettatore e al contesto nel quale ha luogo l’azione teatrale.

Il teatro politico può legarsi a un’idea di teatro tecnologico?

Non è proprio la tipologia di teatro che mi interessa. Ne riconosco la forza scenica, ma sono realtà che hanno estetiche molto distanti.
Immagino il teatro come una grande residenza, ci sono quindi molte stanze, molti piani; a volte risuona forte una sala e dalle altre sembra non sentirsi nulla, ma ciò non vuol dire che non avvenga nulla.
Il teatro contiene moltitudini, ciascuno decide dove collocarsi, in quale territorio operare. Io ho scelto il piano dell’essenza, dove si sperimenta sulla parola, sul testo e sulla struttura drammaturgica. Ma l’idea d’opera d’arte totale è sempre esistita nel teatro, già dall’antica Grecia, dove spesso il pubblico non comprendeva il testo (a causa della presenza di numerosi dialetti), l’impatto scenico era molto simile ad un grande musical, con macchine sceniche ed effetti speciali. In un certo senso anche quello era teatro multimediale, così come il teatro barocco. Da sempre il teatro ha avuto la capacità di sintetizzare e miscelare le arti, e questa è multimedialità.
Per questo considero il teatro l’arte di frontiera per eccellenza, perché si colloca nell’intersezione tra poesia, musica, danza ed arti plastiche.
In questa complessità si incontra il teatro di parola, quella corrente che a me piace definire ipertestuale, dove il testo è il fulcro dell’opera e dove ogni parola ha un peso ed un valore ben definito.

Ay Carmela!. foto di EFE.
Ay Carmela!. foto di EFE.

Il lavoro registico e la coordinazione scenica delle tue opere sono il risultato di un’interazione collettiva. Come si sviluppa il lavoro?

Nella fase di montaggio di un’opera, qualunque essa sia, non improvviso mai sul testo, mantengo sempre un’aderenza a quel che è stato scritto. Il testo è uno dei luoghi in cui si produce il sentire, il resto è movimento, azione, luci, suoni, scenografia. Si lavora quindi partendo dal testo, solitamente chiedo agli attori di memorizzarlo in modo neutro, poi inizio a suggerire azioni fisiche, intenzioni occulte, contesti estranei all’opera, così il testo apparentemente letterario, inizia a caricarsi e vestirsi di significati nuovi, lontani dall’intuizione dell’autore. Tutto quello che non è parola è un lavoro di interazione con gli attori, con lo scenografo, il light designer ed il tecnico audio.

La relazione tra Spazio Scenico e lo Spazio Sonoro come dialoga con lo spettatore?

Attraverso il suono (e qui si assottiglia la frontiera con il Teatro Radiofonico) si può ampliare la scena fino a dove vogliamo, creare una serie di significati che entrino in combinazione con la parola e con l’azione dei soggetti, dando origine ad una complessità multispaziale che permette allo spettatore di compiere un lavoro creativo nella percezione. Il suono pur non essendo visibile ha un’efficacia validissima. L’utilizzo del suono richiede una scelta estetica, se ne può fare un uso denotativo, quindi realista e significativo o connotativo attribuendogli una funzione poetica che apra il campo dell’immaginario. Durante la mia formazione universitaria, più o meno accademica, ho studiato la narrativa dal punto di vista dello strutturalismo e del formalismo russo. In particolare la scuola linguistica di Praga, la quale organizza il testo narrativo dal punto di vista della struttura non evidente, latente. Quello che ho iniziato a fare è prendere dei testi narrativi e porli al confine con il teatro utilizzando forme drammatiche meno convenzionali. Da allora sono alla ricerca della frontiera tra genere narrativo e genere drammatico. Il metodo di lavoro inizia con l’analisi del testo narrativo e delle sue peculiarità formali, il passo successivo è inventare forme drammatiche che rompano gli stereotipi ed i canoni del testo drammatico. Il risultato sarà una drammaturgia derivata e rielaborata.

Quali sono i maestri a cui fai riferimento?

Dico sempre che sono 5 i maestri a cui ritorno permanentemente: Bertolt Brecht (il primo che ritorna sempre), poi Franz Kafka, che mi liberò dal didattismo e dal dogmatismo e che mi permise di accostarmi meglio a Samuel Beckett, il quale a sua volta mi condusse ad Harold Pinter (che considerava a sua volta maestri Beckett e Kafka). Il quinto che porto con me da tutta la vita è l’argentino Julio Cortazar, narratore, poeta e pensatore.

Attraversando la tua produzione drammatica emerge forte la relazione con Beckett: c’è un’affinità nella struttura dei personaggi, nelle loro ambigue domande, e talvolta il riferimento è esplicito, come in Ñaque o de piojos y actores (1980).

Il Narratore è stata una grande rivoluzione per la mia forma narrativa. Ho lavorato su Primer Amor, un tipo di testo a metà tra un racconto ed una novella. Qui appare una voce narrante in prima persona, e da qui l’indagine sul narratore. Se esterno e onnisciente o un Io narrante. Nel secondo caso anche il narratore conterrà un germe di personaggio.
Nei testi di Beckett incontrai la teatralità di quello che in teoria narrativa si chiama “narratore poco affidabile”, quindi non puoi assolutamente fidarti del narratore, perché è in continua contraddizione, e se questo viene visto con occhi teatrali abbiamo un personaggio che ti obbliga a diffidare delle sue parole e dei suoi racconti.

Vorrei che mi parlassi della poetica del “sueños”.

Altri testi narrativi colmi di teatralità “occulta” sono quelli di Franz Kafka. Nelle sue letture tutto è incerto, tutto è ambiguo, contraddittorio: è come se contenesse una soggettività smarrita in un universo di segni che non si possono completamente svelare, e questa a parer mio è già un’esperienza teatrale. C’è sempre un personaggio che cerca di fare e di capire in una realtà ambigua, contraddittoria, incerta, onirica. Kafka era un sognatore compulsivo e la sua poetica è molto affine a quello che nel mio percorso ha poi preso il nome di “poetica del sogno” o logica del sogno. Analizzai quindi tutti i sogni di Kafka e poi i sogni di altri autori, sognatori di realtà. Nel sogno per esempio la percezione della temporalità è differente che nella veglia. Analizzando i sogni ti rendi conto di come i parametri di temporalità, spazialità, identità si dilatino.
Ne Un artista del sogno ho semplicemente trasformato in un’opera teatrale sei sogni che avevo raccolto in giro coinvolgendo anche amici ed amiche.

Percettibile ed impercettibile: Harold Pinter.

Pinter entrò nella mia traiettoria in un momento in cui lavoravo sul concetto di traslucido, su ciò che non è né chiaro né scuro, né trasparente né opaco. Frontiera tra percettibile ed impercettibile.
Pinter affermava che la realtà ci fosse estranea, che non fosse visibile. La realtà è piena di ombre, nessuno dice mai quel che davvero pensa. Quel che si dice corrisponde sempre ad un pensiero occulto, questo atteggiamento muove un sentimento di estraneità. Sembrano assurdi i dialoghi di Pinter, il pensiero non coincide mai con le parole. Fu per me la fonte del “Lettore ad ore”.

Ay Carmela, “la tragedia collettiva del popolo spagnolo”. Puoi dirci qualcosa riguardo la sua genesi e i temi che porta con sé?

Ay Carmela è un testo di frontiera tra reale ed immaginario. Teatro nel teatro. I due personaggi: Carmela e Paolino con il loro “Varietà sopraffino” sono la faccia umile e giocosa, ma contemporaneamente tenera e patetica, di uno scontro storico che naturalmente straripa dalla loro visuale limitata, che supera la loro, quasi inesistente, coscienza politica e travalica la loro, quasi insignificante, capacità d’azione. La loro cattiva stella – e gli alti disegni strategici dello Stato Maggiore – li catapulta proprio al centro del teatro delle operazioni belliche. La goccia che farà traboccare il vaso è la decisione del comandante di far assistere allo spettacolo, come “ultima grazia”, un gruppo di prigionieri che dovranno essere fucilati la mattina successiva. Carmela si ribella, mossa da un sentimento solidale di dignità e libertà. Muore, e ritorna, come uno spettro, nel ricordo. Visto che i vivi non lo vogliono fare, sono i morti a ricordare. È ovvio che nel mondo della realtà i morti non resuscitano, però in qualche modo realmente ritornano, almeno nei ricordi. Bisogna solo definire quale sia il confine tra realtà ed irrealtà. Il teatro permette alla poesia di trovare un punto d’intersezione tra realtà e irrealtà. In questo sentire, si giustifica la scelta della scena vuota, come a simboleggiare la solitudine interiore di Paulino per la morte di Carmela, confine dove questo sentimento si materializza nella proiezione di Carmela. Sono la comicità e l’utilizzo di un linguaggio metaforico e figurato a smorzare la drammaticità del tema.
Quando nel 1987 scrissi Ay Carmela, la Spagna era appena uscita dal Franchismo, erano stati anni di fermento e di lotta dalla dittatura franchista, aleggiava nell’aria voglia di cambiamento; tanti erano i morti, di ogni dove, ai quali non era stata restituita dignità. Questo personaggio, pura energia femminile, emblema di coraggio e rappresentazione della libertà, incarna le vesti della vittima, della madre, e anche della Rivoluzione. La funzione della musica, d’ispirazione folkloristica ed il riferimento al varietà le conferiscono una dimensione popolare. L’utilizzo delle canzoni è sicuramente influenzato dalla lezione brechtiana, i testi hanno contenuto ideologico-politico, ma sono per la maggior parte frammenti di varietà e temi popolari realmente estrapolati dalla cultura popolare. Feci una ricerca nel repertorio musicale degli anni Trenta e scelsi come personaggi due artisti ambulanti perché si riconoscesse la sofferenza sociale ed artistica di chi non ha la libertà d’espressione. Ay Carmela Rappresenta la tragedia collettiva del popolo spagnolo, in questo senso è un testo politico: nonostante la leggerezza dei due personaggi traspare la complessità della condizione umana, una tematica contemporanea in qualsiasi epoca.

Claudia Giannotta

Leggi il Manifesto del Teatro Fronterizo

Questo testo è parte della tesi di laurea discussa all’Accademia di Belle Arti di Lecce, Scuola di Scenografia a seguito di un soggiorno di studio Erasmus 2016.
Un ringraziamento al drammaturgo José Sanchis Sinisterra, a Giancarla Carboni, sua allieva alla Corsetteria, e alla prof.ssa Anna Maria Monteverdi (Accademia Belle Arti, Lecce) che ha raccolto e organizzato il testo in forma di articolo.

Le Edizioni Corsare hanno pubblicato i seguenti testi di Sinisterra:
Ay, Carmela! Traduz. di Antonella Caron, Edizioni Corsare, Perugia 2002 pp. 92 – € 10,00
La scena senza limiti, traduz. di Antonella Caron (raccolta di saggi di Sinisterra, Edizioni Corsare, Perugia 2003, pp. 113 – € 10,00
I figuranti – Perduta sugli Appalachi, traduz. di Antonella Caron, Edizioni Corsare, Perugia 2006 pp. 120 € 12,00.

 

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