Alla rassegna Salviamo i Talenti al Teatro Vittoria di Roma ha trionfato Elettra di Hugo von Hofmannsthal diretto da Giuliano Scarpinato. Abbiamo incontrato il regista per una piacevole chiacchierata. Intervista.
La sicumera interpretativa sembra sempre mancare il bersaglio, di fronte a Elettra: cieca rabbia e desiderio, sete di vendetta e passione non bastano a completarne il ritratto, a dare forma e senso a quel destino che la condanna ‑ giovanissima ‑ all’assassinio, alla solitudine, all’abbandono. Ancora bambina, non ancora donna, la figlia di Agamennone è costretta a compiere un fato incommensurabile, troppo grande per le sue spalle. Ed è nascosta da un cappotto militare oversize che Giuliano Scarpinato ha voluto la propria Elettra, quasi a sottolineare il confondersi in lei di violenza, determinazione e bambinesca inadeguatezza. Dopo il debutto della scorsa estate al Festival delle Dionisiache di Segesta è stato presentato a giugno al Teatro Vittoria di Roma nell’ambito della rassegna “Salviamo i talenti”, della quale è risultato lo spettacolo vincitore, Elettra giunge adesso a Calcata per l’Ad Arte Festival. In una piacevole chiacchierata, abbiamo approfondito con il regista alcune intuizioni e suggestioni.
Giuliano, perché hai scelto di lavorare su Hugo von Hofmannsthal e su Elettra?
Questa scelta è frutto di un’occasione: lo scorso anno il Festival delle Dionisiache di Segesta mi ha chiesto di mettere in scena un testo classico o inerente alla classicità, dato lo straordinario contesto del Teatro Greco e del Tempio Dorico. Da sempre ho avuto una passione per l’Elettra di Hofmmansthal, che lessi per la prima volta durante gli anni di studio allo Stabile di Torino: trovo che sia una straordinaria reinterpretazione del mito di Elettra, alla luce di un modernissimo scandaglio della psicologia e dell’animo umani. Essendo Hofmannsthal un contemporaneo di Freud, ha applicato a quei personaggi un’analisi molto profonda, molto contemporanea. Questa è stata l’occasione che ha permesso di sviluppare l’amore che già esisteva per questo testo.
In che cosa è ancora attuale Elettra?
Dal mio punto di vista c’è innanzitutto la sproporzione tra la giovanissima età dei protagonisti di questa storia e il compito che si trovano a dover assolvere, la missione eroica che devono in qualche modo compiere e che è stata loro assegnata da una volontà divina. Elettra, sua sorella Crisotemi, suo fratello Oreste sono molto giovani, motivo per il quale ho voluto attori giovani nei loro ruoli. Vendicare il padre è un’azione enorme, per la quale Elettra aspetta l’arrivo del fratello in modo rituale, quel fratello che rispetto a essa appare tuttavia inadeguato… Hofmannsthal conclude la vicenda in modo spiazzante: i due sovrani vengono uccisi, Elettra muore immediatamente dopo – come se, una volta bruciata l’ossessione della vendetta, la sua vita stessa non avesse più senso – e Oreste si allontana, acclamato dalla folla. Anche Oreste, come Elettra, è trascinato dagli eventi. Trovo che l’inadeguatezza di alcuni ragazzi molto giovani a compiere una missione eroica animata da ideali forti risulta molto contemporanea.
Come hai lavorato sul testo?
Mi sono avvicinato a questo testo nel modo in cui mi avvicino a tutti i testi: innanzitutto l’ho molto “fisicizzato”, non lasciandomi cioè intrappolare dalle parole. La parola di Hofmannsthal è molto alta, molto poetica, e quindi rischia di imbrigliare l’attore; io ho cercato di fisicizzare molto questi personaggi, di lavorare molto sulla loro intimità, sul loro eros, sulle caratteristiche della loro età: l’urgenza dell’adolescenza, oppure la malattia di Clitemnestra e le sue ossessioni, simili agli effetti di una dipendenza da stupefacenti. Quindi ho cercato di cucire addosso ai miei attori dei corpi che fossero molto vibranti e dentro cui le parole potessero risuonare non vuote, non vecchie.
La prima scena è particolarmente significativa: il sipario si apre soltanto a metà, come se il pubblico non potesse avere accesso nella sua interezza a ciò che succede sul palcoscenico.
Sì, come se potesse soltanto spiare. Mi piace moltissimo quando gli spettacoli non sono dichiarati nei propri intenti fin dalla prima scena, ed è quello che ho cercato di fare in Elettra. Questo è uno spettacolo che si svolge tutto in un’atmosfera notturna, segreta, di complicità, di grande mistero. Mi piaceva l’idea di cominciare con uno spioncino aperto su questa scena, che non volevo fosse immediatamente tragica: per questo ho inventato un pranzo, che non esiste nel testo di Hofmannsthal, e che è un po’ invece di amletica memoria, in cui si osserva una sorta di carrellata generale su tutti quanti i personaggi. Compare così una famiglia reale di cui volevo rappresentare questa allegria forzata, questo buonumore che imbelletta il marcio di un potere corrotto, senza basi, che non ha alcun fondamento. Mi piaceva l’idea di cominciare quasi da una commedia, da un Egisto molto grottesco che racconta barzellette per divertire una corte che non gli dirà mai di no, con una Clitemnestra completamente obnubilata, che è stata sedotta da quest’uomo con il quel adesso non ha più niente da condividere. Mi rendo conto che ovviamente è stato un po’ come compiere uno strano innesto fra piante: solo dopo inizia il vero testo di Hofmannsthal e la tragedia prende l’avvio. Quello costruito dall’autore è un orologio molto preciso, una macchina quasi perfetta, motivo per cui poi non è facile prendersi altre libertà. Io l’ho fatto in altri punti, ho scelto di rappresentare in un certo modo la morte di Clitemnestra e la morte di Egisto, ma per il resto non è stato semplice per me creare altri innesti. Ho cercato di creare la migliore mediazione possibile tra la mia creatività e il rispetto per il testo.
Da Fa’afafine a Elettra: esiste un legame tra queste storie di figli?
Sono ovviamente due operazioni profondamente diverse. Fa’afafine è uno spettacolo che ho creato io dalla A alla Z, che ho scritto e che viene tutto completamente da me. Entrambi questi spettacoli, però, sono per me ricerche sull’identità, sull’identità in formazione e sull’incastro identitario. Anche Elettra, come Alex di Fa’afafine, è una figlia, è anche lei una bambina incastrata nel passato, che non esce dal lutto. Sua sorella Crisotemi invece è legata alla vita, le dice: «Usciamo da questa casa, andiamo via, io voglio sposarmi, voglio fare dei figli», e lei rifiuta, è un no ostinato il suo, un no infantile. È incastrata in qualcosa da cui non riesce a uscire, come il mio Alex è incastrato dentro la sua stanzetta. Gli esiti sono diversi, ovviamente: mentre Alex trova l’abbraccio dei suoi genitori, Elettra trova il piacere, il rilascio soltanto nella vendetta; ma sono entrambi bambini imbrigliati.
Alessandro Iachino
In scena a Calcata Teatrocinefestival 2016 (con variazioni nel cast) – luglio 2016
ELETTRA
di Hugo von Hofmannsthal
regia, elaborazione drammaturgica , progetto scenico Giuliano Scarpinato
con Elena Aimone (Clitemnestra), Anna Charlotte Barbera (una serva), Elio D’Alessandro (Aio di Oreste), Raffaele Musella (Oreste), Giulia Rupi (Elettra), Giuliano Scarpinato (Egisto), Eleonora Tata (Crisotemi), Francesca Turrini (la guardiana), Valentina Virando (una serva)
musiche Elio D’Alessandro
costumi Dora Argento
luci Danilo Facco
collaborazione alle scene Marco Borgogni, Diana Ciufo
assistente ai movimenti Daniele Sala
produzione Wanderlust Teatro
in collaborazione con Dionisiache / Calatafimi Segesta Festival
Banìmbini imbrigliati?
Ma che dici…? Siamo di fori come terazzi?
La gente oramai ha il cervello cotto e ‘beve’ qualsiasi cosa
Giulianio Scarpinato CONVERTITI
Scommetto una somma considerevole che lei si è messo/a a cercare su google la frase “Giuliano Scarpinato bambini”. Sbaglio? Ci fa solo piacere che abbia trovato questo sito. Grazie.