In visita al Festival di Santarcangelo 2016, abbiamo incontrato la direttrice artistica uscente Silvia Bottiroli. In un’intervista ci racconta il presente, il bilancio del passato e qualche idea di futuro
Siamo nel pieno di Santarcangelo 16. Come è andata l’apertura?
C’è stata una partenza bellissima, si sente un po’ anche nell’atmosfera. Siamo partiti con molti progetti, ma in particolare due hanno già lasciato un segno: la prima di Lumen di Luigi De Angelis e Emanuele Wiltsch Barberio allo Sferisterio (che si sposta poi al Lago e alla Cava di Marecchia, ndr), che rappresenta uno dei luoghi simbolici dei grandi spazi aperti. È stato il momento rituale di inizio del Festival e anche un momento di formulazione di una doppia dedica del Festival, a Flavio Nicolini e a Sandra Angelini. Un momento molto potente, toccante, con grandissima partecipazione della città. Così come con L’invincibile di Zapruder, un progetto molto difficile, produttivamente e tecnicamente, che coinvolge anche gli ZEUS!. Quindi è stata davvero una partenza molto sentita, e non ne eravamo sicuri, perché avevamo segnali contraddittori: una presentazione del programma alla città molto partecipata da un lato, una lentezza nell’avvio della biglietteria dall’altro… e poi finalmente una partecipazione così ampia!
Devo chiederti, d’ufficio, un bilancio di questa tua direzione. Che cosa hai pensato di questi anni? È cambiato qualcosa anche rispetto al tuo futuro e a quello del Festival?
Mi sembra che questa edizione rifletta il percorso che abbiamo fatto e il posizionamento di Santarcangelo oggi. È importante il fatto che il festival si confermi come uno spazio di presentazione di alcuni spettacoli con uno sguardo aperto alla scena internazionale: è uno dei luoghi in Italia dove vediamo teatro contemporaneo internazionale, anche costruendo dei percorsi di continuità con gli artisti. Scelte precise sono, ad esempio, il ritorno di Koohestani o di alcuni artisti italiani, come Cristina Kristal Rizzo e Cosmesi, entrambi presenti al festival con due lavori diversi, e non necessariamente con dei debutti: anche la scelta di dare una vita un po’ più lunga agli spettacoli risuona con le questioni aperte del sistema teatrale, è un segnale che il festival sta dando. I due poli fondamentali restano comunque quelli della creazione e del rapporto con il pubblico: mi sembra che il bilancio di questi anni sia quello di un festival che è diventato sempre più un luogo dove gli artisti lavorano, anche qui in modi diversi; un festival che pratica un’idea di radicamento e invita gli artisti a impegnarsi e a mettersi in relazione con un contesto. Come la creazione di Bouchra Ouizguen, realizzata in due settimane di atelier, a maggio e a luglio, con le danzatrici marocchine della compagnia e delle donne locali di nazionalità diverse. Questo si lega anche al discorso sul pubblico: il festival si è assunto la responsabilità di creare nuovo pubblico, posto di fronte a oggetti complessi. C’è poi un lavoro sull’infanzia, che quest’anno viene messo a sistema con laboratori e spettacoli: una pista un po’ sotterranea, che era già stata visibile nel 2013 grazie al lavoro di Rodolfo Sacchettini, quasi abbandonata nei due anni successivi ma che ora torna a essere presente nel programma in una forma molto articolata.
Fuori dalle attività del Festival, come si articola la vita teatrale di Santarcangelo?
È legata allo spazio del Lavatoio, quindi per lo più alle proposte che Santarcangelo dei Teatri formula durante l’anno, poiché non esiste una stagione teatrale. Aver sviluppato un lavoro continuativo con gli artisti – attraverso residenze, prove, visite – è stata una scelta importante, così come il percorso laboratoriale rivolto ai ragazzi: per sei mesi all’anno, in teatro entrano ogni settimana una settantina di ragazzi delle scuole medie che seguono la non-scuola, e una quindicina di adolescenti che seguono il laboratorio di Teatro Patalò. In questo modo i giovani cominciano a riconoscere e ad abitare quel luogo, a vivere una familiarità con lo spazio del teatro. Abbiamo scelto di non realizzare una vera e propria attività di programmazione: innanzitutto perché non ne abbiamo le risorse e non fa parte del nostro ruolo, ma anche perché abbiamo preferito pensare ad appuntamenti più ravvicinati con la creazione teatrale (quindi la visione di prove e la cura di momenti legati ai progetti in residenza) e anche di mettere in luce le stagioni che già si svolgono in Emilia Romagna e in Italia, attraverso il progetto Compagnia di Giro, con il quale accompagniamo gli spettatori locali a vedere spettacoli importanti, attraverso una vera e propria gita in pullman a cui partecipa anche il gruppo di lavoro del Festival. Si tratta di far scoprire luoghi e formazioni artistiche attraverso un processo di mediazione, di accompagnamento, di introduzione. D’altronde il territorio regionale è molto ricco di offerta e abbiamo capito che una delle domande degli “spettatori non abituali” è proprio rivolta all’orientamento: è difficile per chi non abbia già un’abitudine al teatro assumersi da solo una responsabilità di scelta, correre il rischio culturale di confrontarsi con un lavoro senza avere la sensazione di possedere gli strumenti per apprezzarlo pienamente.
Fare una proposta di percorso significa far fruttare la fiducia che il Festival negli anni si è conquistato, ma anche costruire strumenti in maniera condivisa, dando forma a materiali introduttivi come note o interviste o scegliendo quegli artisti che, passando al Festival nelle edizioni passate, hanno lasciato un segno – è il caso di Virgilio Sieni che dopo Sogni nel 2012 è conosciuto e amatissimo da tante persone di generazioni diverse qui a Santarcangelo. Quest’anno abbiamo poi aggiunto il lavoro dei Detective Selvaggi, coordinato da Eva Geatti, una sorta di intensificazione dello stesso principio: cinque ragazzi provenienti da diverse parti d’Italia hanno potuto compiere un percorso molto strutturato nel quale alle uscite puntuali si è affiancata una serie di incontri informali e di visione di altre proposte, e infine viaggi più ricchi a Bologna per Live Arts Week, al Kunstenfestivaldesarts a Bruxelles e ora a Santarcangelo – un viaggio cioè che ha anche attraversato tre idee di festival diverse, ma vicine dal punto di vista artistico.
In che rapporto è il sistema festival con il sistema delle stagioni? Che funzione dovrebbero avere rispetto alla cultura teatrale? Ad esempio sembra mancare, nelle stagioni e nei luoghi di produzione, una reale apertura al panorama internazionale, così vero in molti dei nostri festival.
Francamente credo che il pubblico sia molto più disponibile di quello che molti direttori di teatro pensano. Anche alcuni lavori presentati qui quest’anno – penso a Zachary Oberzan, a Philippe Quesne, ad Amir Reza Koohestani… – potrebbero benissimo essere accolti nelle stagioni e così avere una vita più lunga, incontrare più pubblici, ma spesso questa opportunità si perde.
Il rapporto tra stagioni e festival non è sufficientemente sviluppato e organico, a parte poche eccezioni, e credo sia percezione abbastanza condivisa quella di un procedere un po’ in parallelo: una serie di progetti e di lavori, sia italiani sia internazionali, vengono presentati solo nei festival e non sono intercettati da chi programma più continuativamente in un territorio. Il rischio è quello di creare due circuiti equivalenti, uno di produzione “vera” e l’altro, quello dei festival, di forme leggere di sostegno e accompagnamento produttivo. Sarebbe importante collaborare più spesso, condividere percorsi e costruire operazioni comuni.
Anche alla luce dei parametri del Decreto.
E di tutta una serie di altri fattori, che vanno dal rapporto con gli artisti a quello con il pubblico e che suggeriscono come la condivisione di progetti trasversali avrebbe un impatto positivo su tutti i soggetti coinvolti.
Credo che in un sistema articolato dal punto di vista produttivo, in cui ci si prenda cura sia del teatro di tradizione e di repertorio che del contemporaneo, sia fondamentale avere delle funzioni differenziate e riconoscibili, e che in quel tipo di contesto, che sfortunatamente non è il contesto del sistema teatrale di oggi, i festival dovrebbero essere luoghi dell’eccezione, in cui gli artisti possano misurarsi con formati, spazi e modalità di lavoro inaspettate. Luoghi, cioè, in cui fare ricerca e produrre lavori che difficilmente potranno essere creati all’interno dei teatri di produzione, specialmente alla luce di alcuni dei parametri quantitativi attuali, che impongono alle produzioni delle teniture così lunghe da implicare la loro capacità di incontrare immediatamente l’interesse di un pubblico ampio e differenziato.
D’altro lato, ho l’impressione che i teatri, in quanto soggetti che intrattengono un rapporto continuativo con gli artisti dal punto di vista produttivo, ma anche con la città e con il pubblico, abbiano bisogno di uscire dalle loro porte, se vogliono incontrare nuovi pubblici. Si tratta di comprendere qual è e quale può essere il ruolo complessivo del teatro per una città, con quali soggetti debba dialogare, dove debba operare. Da questa prospettiva, il formato del festival, così leggero nel suo non avere un luogo e in grado di accadere dappertutto, è un bel laboratorio di progetti che facilita una spinta allo sconfinamento. Forse allora i festival possono essere una fucina di idee utile anche alle stabilità e ai teatri di produzione, proprio rispetto al rapporto con l’innovazione artistica, con la città e con gli spettatori.
Alessandro Iachino e Sergio Lo Gatto