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Roberto Rustioni e Daniel Veronese. Cavalli di guerra

A Inequilibrio 2016 Festival della Nuova Scena tra Teatro e Danza, va in scena Donne che sognarono cavalli di Daniel Veronese nell’adattamento di Roberto Rustioni.

Foto di Alessandro Cani
Foto di Alessandro Cani

Che tutti gli spettacoli, più o meno complessi, siano il risultato di una stratificazione di livelli non è certo un assunto nuovo e rivelatore, quando invece questa presenza simultanea di piani di interpretazione origina altrettante commistioni e significati e quindi ulteriori potenzialità di lettura, allora il lavoro di codifica non può che scandagliarne le suddette sfaccettature e scoprirne l’origine che le sostiene e giustifica.
Dopo la prima nazionale al Festival delle Colline Torinesi, Donne che sognarono cavalli scritto da Daniel Veronese nell’adattamento di Roberto Rustioni giunge per soli due giorni nella Castiglioncello del Festival Inequilibrio, nella Sala Auditorium all’ultimo piano del Castello Pasquini, centro propulsore e identitario del festival ventennale organizzato da Armunia.

La scrittura emotivamente sospesa del drammaturgo argentino incontra l’indagine psicologica di Čechov che poi ci conduce direttamente a Rustioni, il cui legame con l’autore russo ci era già noto. Tre “momenti” di teatro quindi legati insieme nella sintesi di un lavoro che per la cruda nettezza non ha nulla da nascondere, palesandosi nella sua concitata durata di “intermezzo familiare e violento”. Veronese non parla di politica ma i suoi sono personaggi politici, il loro tessuto emotivo e psicologico è esso stesso politico. Non vi possono prescindere, ne sono intrisi. Sappiamo che Lucera – interpretata da un’isterica Valeria Angelozzi – è figlia di desaparecidos ma l’abbandono, la ferita, il distacco dell’assenza non ci viene esplicitato se non raccontato attraverso i suoi pensieri: monologhi e a parte tramite i quali cerca di ricostruire quella storia che quand’era bambina ha subito un’interruzione. Lucera è il personaggio perno della drammaturgia intorno al quale ruotano suo marito Ivan (Paolo Faroni), i due fratelli Roger (Valentino Mannias) e Reiner (Fabrizio Lombardo) con le rispettive mogli, Bettina (Maria Pilar Perez Aspa) e Ulrica (Michela Atzeni), tutti riuniti a cena nella nuova ma non tanto accogliente, quanto invece disadorna, casa di Bettina e Roger e in attesa di un risotto alla turca che non sarà mai servito a tavola.

Foto di Alessandro Cani
Foto di Alessandro Cani

Il testo di Veronese sembra non volerla davvero raccontare questa storia, quasi preferisca lasciarla intendere, mantenendola sospesa nelle risate, grida e lacrime dei personaggi, come se solo l’impianto emotivo fosse in grado di esplicitare i fatti stessi. La guerra della relazione è la guerra interna alle mura domestiche incapaci di contenere il dolore; frammentati, sconnessi, sospesi nel limbo di una realtà filtrata sensibilmente dall’inconscio, i ricordi vengono a galla insieme a inquietanti storie di cavalli raccontate dalle donne la cui attrazione verso l’animale è tratteggiata con morbosità e ossessione. L’opera del drammaturgo argentino si costituisce di cinque quadri, il cui intreccio non segue però una linearità sequenziale ma viene così montato: 3, 2, 1, 4 e 5. Non solo il testo non dice, ma ciò che viene rivelato avviene in base a un ordine cronologico anteposto o postposto che ne altera quasi la stessa veridicità narrativa. Ogni azione allora potrebbe succedere o non essere realmente accaduta perché quello che alla fine conta drammaturgicamente – e in questo la regia di Rustioni è trasparente e determinante – è il contenuto psicologico-emotivo: tutto si regge sulle azioni e reazioni comportamentali dei sei personaggi. Čechoviano è dunque l’approccio, lo studio dei ruoli che si costruiscono, articolano e anche si distruggono attorno al tavolo, in una scena spostata e relegata in un angolo dell sala del Castello Pasquini: un kammerspiel nel quale lo spettatore (alcuni seduti a terra su dei cuscini) teme di venir investito dai movimenti, iperbolici, degli attori. La loro è una guerra inclusiva mirante all’esacerbazione tanto di se stessi che del legame, apparente, che li mantiene uniti e li definisce come una famiglia.

Čechov si fa dunque carnale e sensuale nel testo del drammaturgo argentino e “esaltato” nella regia di Rustioni. Il riflesso obliquo dell’autore russo è spostato e curiosamente deviato. L’esagerazione infatti è l’elemento che lede e inficia lo spettacolo: attori notevoli, organicamente compatti nella recitazione e nei tempi che però cedono ad esasperare e ad esasperarsi, creando nello spettatore quasi un imbarazzo ingiustificato.

Lucia Medri

Festival Inequilibrio 2016, Castiglioncello – luglio 2016

DONNE CHE SOGNARONO CAVALLI
di Daniel Veronese
adattamento e regia: Roberto Rustioni
scene e costumi: Sabrina Cuccu
luci: Matteo Zanda
con: Valeria Angelozzi, Maria Pilar Perez Aspa, Michela Atzeni, Paolo Faroni, Fabrizio Lombardo, Valentina Mannias

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

1 COMMENT

  1. Esagerare: far parere maggiore del vero, rappresentare un fatto in modo non conforme all’effettiva realtà, aumentandone l’importanza e la gravità… l’esaltazione, l’eccitamento euforico svela megalomania, definisce uno stato psichico caratterizzato da euforia , allegria e ottimismo immotivati, l’attenzione è labile , le associazioni facili e superficiali.
    Esasperare: rendere più doloroso e gravoso, portare a un limite estremo di sopportazione.
    Credo che i due termini che hai utilizzato identifichino con estrema lucidità e acume i limiti decadenti di un teatro di regia, o meglio, di una scena mentale aggravata dai registi.

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