Scurìa è uno spazio occupato a maggio del 2014 i cui locali sono stati riconsegnati all’Università degli Studi di Foggia il 31 del mese scorso. Una visita prima della dismissione
Gli spazi occupati sono esperienze, diversissime tra loro e non tutte necessariamente valevoli, di appropriazione di luoghi le cui assegnazioni d’uso sono disparate e spesso distanti da quelle originarie, bonificati da realtà di attivismo diverse in risposta all’abbandono degli enti responsabili, alle lungaggini burocratiche, ai fondi perduti, alle priorità mancate.
C’è la Puglia del cibo e della musica popolare, ma c’è anche la Puglia dell’ILVA, lontana dai litorali, dai trulli e dagli scialli frangiati. Ci sono zone resistenti, franchigie di provincia in cui la diffidenza indebolisce l’iniziativa e dove l’impossibilità di cambiamento rischia di divenire un alibi in primis per chi di questo dovrebbe essere nucleo pulsante. Che succeda poco non è una novità, se succede qualcosa ha vita breve e se non succede nulla si ha una scusa in più per piangere o partire. La provincia di Foggia si configura a volte come un disgraziato esemplare. Fra rivalutazioni del territorio, proposte e avventure istituzionali più o meno riuscite, si enucleano reali tentativi di reazione non necessariamente legati all’immagine stagionale candida di spiagge assolate e chiese dorate. In questo contesto nasce Scurìa (letteralmente “oscurità”), esperienza di occupazione iniziata a maggio del 2014 e sospesa per cessione volontaria degli spazi di via Ammiraglio da Zara il 31 dello scorso mese, visto il mancato bisogno di una “resistenza estetica” e in prospettiva della ricerca di un nuovo luogo dove portare avanti il progetto. Infatti lo scopo non è «rimanere attaccati alle pareti» (medesimo principio per il quale gli attivisti non hanno scelto la via dell’auto-reddito), bensì conquistare luoghi per riconsegnarli alla città come spazi di incontro, camere di concrezione per lo sviluppo della coscienza civile e socio-culturale, opporsi alla loro riqualificazione quantunque istituzionale sarebbe una forma di sterile contraddizione.
A condurci nella visita è Alfonso Errico, tra i responsabili di un collettivo di quaranta persone provenienti da matrici politico-ideologiche differenti. Ci spiega come già dal primo comunicato divulgato (Monaci guerrieri) si volesse chiarire che «la sospensione della legalità non fosse una autorizzazione a coltivare vizi privati e personali»; i locali sono stati ripuliti e messi in funzione, per creare una struttura enorme con incredibili potenzialità di fruizione, di proprietà della Regione e lasciata in comodato d’uso all’Università degli Studi di Foggia per stabilirvi aule e uffici amministrativi. Dietro l’architettura del Ventennio sormontata da striscioni rossi e neri, gli spazi di Scurìa hanno lo scopo di «valorizzare luoghi degradati attraverso l’autodeterminazione dei cittadini»: una palestra, un laboratorio teatrale, una sala prove per musicisti, una falegnameria, un laboratorio di break dance, uno di pittura, una sartoria, un orto terrazzato, una biblioteca e sala studio, una postazione radiofonica. Quaranta presentazioni di testi, una dozzina di spettacoli teatrali per altrettante compagnie locali e non, nove mostre ed esposizioni, fiere e iniziative come il Nostro-Expo, Fiera delle autoproduzioni alimentari” o la fiera dell’editoria Libri di ferro, una serie di dibattiti e assemblee di approfondimento, centocinquanta fra cantautori e gruppi musicali ospitati, tutti disseminati fra serate danzanti, cene e pranzi sociali, performance per bambini, open-day per famiglie volti a intessere legami con i vari livelli della popolazione cittadina e del quartiere, con un target dai 15 ai 65 anni. Nel corso di una chiacchierata a tavolino è parso evidente come, almeno nelle intenzioni, la volontà di coerenza sia diventata una delle principali direttive dell’intera esperienza. Farsi rete e nucleo per l’accoglienza e la germinazione di interrogativi e problematiche diverse, per spingersi oltre l’incondizionata affiliazione a qualsivoglia istanza o moto oppositivo.
In un testo discusso, pubblicato a metà del secolo scorso (The Moral Basis of a Backward Society), Edward Banfiel, dopo una serie di ricerche condotte in Lucania, individuò nel familismo amorale la chiave di volta per comprendere e spiegare l’arretratezza sociale. Parrebbe un’immagine anacronistica, eppure, a guardare alcuni dei fattori caratterizzanti focalizzati dallo studioso inglese, la distanza storico-scientifica sembra pericolosamente dissiparsi: l’interesse comune non foraggiato da nessuno se non quando coincidente con quello personale, l’additamento truffaldino di quanti dichiarano di agire per il bene comune, la difficoltà di difendere organizzazioni di vario tipo comportando la necessità di una dose di correttezza a discapito del proprio tornaconto, l’assenza di coincidenza tra vivere giornaliero e principi ideologici e politici, il voto utilizzato come merce di scambio per il raggiungimento di benefici materiali a breve termine.
Difficile qui per chi scrive fornire una più approfondita panoramica di bilancio dopo aver gettato lo sguardo solo sulla conclusione: per una storia non basta la lettura della fine. Forse però in un territorio dove di tanto in tanto i baleni son così forti da accecare, il buio è una delle strade di svelamento della memoria, procedere a piccoli passi nell’oscurità una chance in più di unire i cavi e fare luce.
Marianna Masselli