La compagnia lost movement presenta POPoff, primo spettacolo del festival Dominio Pubblico 2016. Recensione
Ieri si sono aperte le danze con POPoff, unico spettacolo di danza di questa terza edizione del festival #under25. Prima di entrare nel vivo dello spettacolo visto al Teatro dell’Orologio (uno dei quattro luoghi del festival assieme al Teatro Argot Studio, al foyer del Valle e all’India), vediamo un pubblico curioso, come sempre ritardatario, tendere orecchio ad alcuni dei ragazzi che introducono il festival, invitandoci ad andare a vedere l’altro spettacolo in programma presso il teatro Argot Studio, saranno disponibili staffette, pronte a guidare gli spettatori tra i vari luoghi. Chi non sia mai stato travolto dalla frenesia festivaliera, sballottato da una parte all’altra della città ospitante, non sa quanto possa far comodo una guida, un segno distintivo che catalizzi le energie, creando una piccola comunità temporanea. Abbiamo respirato quest’aria, quasi non fossimo nella Roma disgregata in cui ci troviamo, dove una simile dimensione sembra sempre più difficile da ricreare.
Altra nota positiva, e qui entriamo un po’ più nel merito di POPoff. Lo spettacolo diretto da Nicolò Abbattista (anche direttore artistico e ideatore della compagnia Lost Movement), ha sicuramente il pregio di appartenere a uno stile di danza che raramente ci è capitato di intercettare a Roma negli ultimi anni, sviluppando in una serie di quadri distinti una vitalità confusionaria che mescola passi di taranta (retaggio di provenienza del coreografo pugliese trapiantato in Lombardia) con modern e contact, approccio antropologico e immaginario pop, nutrimento del corpo e delle carni, sensualità e goffaggine, dolore e preghiera, gesti parlanti e azioni più astrattamente evocative.
A rendere un po’ più debole il risultato, oltre ad alcune sbavature tecniche ancora da affinare, è probabilmente l’ingente quantità di spunti e materiali offerti dalla prova dei sette danzatori; troppi probabilmente, considerando che in molti casi la radice narrativa, che qui trova espressione principalmente nella danza, non riesce a esser sempre portata a conclusione, lasciando cadere alcune delle molte trame suggerite dal movimento. Sicuramente è uno dei rischi accettati nel voler dialogare con i miti popolari legati alla nutrizione. D’altra parte la scelta di non volerli connotare in una forma unidirezionale o specificatamente regionale, trova nella cornice musicale originale a cura di Faraualla (su tutti, a emergere è il pezzo Sind) un suggestivo contraltare vocale e sonoro, in grado di restituire efficacemente e con originalità la ricerca sul tradizionale, concedendo al folklore noto soltanto un Santu Paulu delle tarante appena rivisitato
Nonostante l’estrema vicinanza palco-platea non si perde la costruzione dell’immagine corale, anche grazie al disegno (sempre a cura di Abbattista) di luci e di ombre, che vivono in scena, queste ultime, anche quando i danzatori si muovono appena dietro le quinte. Di tutti i quadri probabilmente a rimanere più impressi sono due: pensiamo al passaggio ironico, ispirato a una canzone del 1967 cantata in una delle prime edizioni dello Zecchino d’oro, Popoff, che qui dà il titolo allo spettacolo e che viene resa in scena con una serie di passaggi tronfi delle donne-cosacco contrappuntate dall’intervento dell’intrepido e goffo Popoff. Il secondo giunge dopo una serie di pre-finali, portando esplicitamente alla luce il tema del cibo che qua e là affiorava, tra i gesti di semina e parole simbolo un po’ superflue: è l’ultimo movimento, nella quale le dinamiche della taranta diventano forze motrici di una danza vorticosa e gioiosa, forse non più ballo catartico nel suo primo senso antropologico, ma ancora rituale collettivo e sociale. Il palco, scatola nera come neri sono i costumi, si riempie di farina, gettata dai sacchi portati dai danzatori, fatta cadere come polvere sinuosa o pioggia invadente, fango nel quale rotolarsi, arma per una sfida giocosa, finendo infine, tutti a terra.
Ironia e gioia, sicuramente il pubblico di Dominio Pubblico ha percepito questi due aspetti e li ha apprezzati applaudendo con gusto la giovane compagnia, alla quale auguriamo di affinare il proprio segno linguistico, perché non si disperdano i semi piantati.
Viviana Raciti
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