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Metamorfosi di Roberto Latini. Il trucco e l’anima

Metamorfosi – di forme mutate in corpi nuovi di Roberto Latini debutta al Teatro Vascello di Roma in una versione con 11 episodi. Recensione

 

foto di Futura Tittaferrante
foto di Futura Tittaferrante

Metamorfosi di Roberto Latini comincia da Ovidio, ma si spinge oltre. Come giusto che sia, i personaggi narrati dal poeta latino – a loro volta mutuati da fonti greche – «mutano in corpi nuovi» e così fa la drammaturgia pensata da Latini, che si dichiara «non finibile». In questo senso il contenuto dialoga con il contenitore, che nella versione presentata al Teatro Vascello di Roma si limita ad assumere una possibile forma, senza precludersi la possibilità di evolvere, di cambiare in corpo nuovo.

Nel corso di quasi quattro ore di spettacolo, spezzate da due intervalli, il palco diventa un ambiente neutro, abitato, colorato, contaminato da narrazioni eterogenee, in un afflato di creatività che non somiglia a nient’altro, neppure a se stesso. Ma un elemento comune c’è: l’immaginario visivo che lega tutte le scene è quello grottesco e beffardo di un circo sgangherato. Gli attori – tutti – sono abbigliati con bottoni di pon-pon, parrucche, nasi rossi, scarpe dalla punta smisurata. Sul palco e tra le file della platea fluisce un esercito di clown malinconico e cialtrone, disegnando un manicomio dello spirito per il quale il mito si fa linguaggio condiviso.

foto di Futura Tittaferrante
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Gli undici episodi si susseguono in ordine ora casuale, ora determinato da una ricerca drammaturgica che insegue la struttura di una partitura. Le luci di Max Mugnai e le musiche di Gianluca Misiti – come sempre facce imprescindibili del prisma intagliato da Latini – comunicano tra loro, con gli attori e con la platea creando un preciso ambiente virtuale, una realtà in potenza dentro cui si articola il racconto.
Se nell’Ubu Roi Latini attraversava la scena nei panni di un personaggio esterno, a metà tra un catalizzatore e un generatore di energia, qui la sua figura e la sua influenza si ibrida con le altre: i performer che lo circondano (Ilaria Drago, Alessandra Cristiani, Savino Paparella, Sebastian Barbalan, Alessandro Porcu e l’ensemble danzante di Esklan Art’s Factory) assumono ciascuno una propria posizione imprescindibile nella costruzione del ritmo.

La loro azione, pur a volte quasi schizofrenica e apparentemente incoerente, è resa omogenea dal tema di fondo e dal filtro fondamentale del costume, che da subito mette in pace la questione della rappresentazione, riducendo ogni carattere alla propria conclamata sbavatura: il trucco pesante e mai assente fa deragliare immediatamente ogni tentativo di affezione a una particolare personificazione. Passando attraverso l’uso di pochi oggetti e il filtro (sempre strumentale, mai puramente estetico) dei microfoni, la loro voce non è mai naturale, il loro incedere mai del tutto risolto, il loro agio sempre fratturato da interruzioni, cambi di direzione, improvvisi dialoghi in versi pre-verbali.

foto di Futura Tittaferrante
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Narciso, Ecuba, Apollo e Coronide, Aracne, tutti vivono allora come ombre evocate dalle voci che li raccontano o dai movimenti che li descrivono, i corpi si prestano a fare da cassa di risonanza per una narrazione che non si propone di procedere in senso lineare, ma si impone come regola universale.
Eppure una forma questa versione di Metamorfosi tenta di averla. Per quanto si voglia farla coincidere con il principio metamorfico che unisce tematicamente i miti raccolti, l’attenzione dello spettatore tende a ricercare una dimensione razionale, associando un’entrata clownesca all’altra, soffrendo una mancanza di libertà che invece un’installazione site specific garantisce a priori. La trappola dell’interpretazione, allora, è esposta in maniera provocatoria e occorre a volte uno sforzo di astrazione per evitare di scivolare dentro un processo di ricostruzione drammaturgica. Se questo esperimento dimostra una fragilità, è qui che si trova, nel tentativo a volte estremo di forzare dentro a una struttura un pensiero artistico e performativo che radicalmente la rifiuta. E tuttavia questa frammentarietà della forma è anche indizio delle condizioni produttive.

foto di Futura Tittaferrante
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In garbato ma deciso disaccordo ci poniamo qui nei confronti di chi legga nel lavoro di Roberto Latini una predominanza non del tutto giustificata della ricerca vocale, di chi tenti di rintracciare sensi più o meno reconditi e di governare le vele dell’azione scenica verso un messaggio coerente (si veda la riflessione di Giulio Sonno). Per quanto affascinante possa essere ogni interpretazione – soprattutto se ben argomentata – continuiamo a diffidare di un’impostazione così distaccata e così orientata all’isolamento dei concetti. In questo caso la qualità di partecipazione dello spettatore e dunque il suo personale percorso di segni raccolti o abbandonati dialoga costantemente con la qualità della presenza dei singoli performer e delle relazioni che li uniscono, rendendo dunque limitante ogni sguardo che tenti di far prevalere il pensiero registico sulla dinamica delle azioni. Questo non è teatro di regia. Somiglia piuttosto a un teatro di poesia e di immaginazione (come per altro chiarisce il monologo iniziale che Latini stesso consegna con voce piana e naturale passeggiando in platea) in cui a dettare legge – una legge virtuosamente e a volte acutamente libera da costrizioni – è l’equilibrio tra parola, movimento e contatto fisico.

foto di Futura Tittaferrante
foto di Futura Tittaferrante

Se il trucco, la maschera e il continuo slittare tra io narrante e io narrato impediscono di stabilire del tutto il rapporto di identità tra testo che dice e corpo che agisce, sfuma anche la possibilità di separare il soggetto dell’osservazione dal suo oggetto. Quello che accade di fronte a noi somiglia a un tentativo di farci guardare in uno specchio allegorico deformato, quasi frantumato: l’apologo perde la dimensione morale, gettandoci così nella condizione primordiale del clown, il “misfit”, il disadattato per eccellenza, per professione. Una figura che dietro all’apparente casualità dei gesti (e, in questo caso, delle identità) cela un totale assorbimento dentro la loro esecuzione. L’opportunità di comprendere il portato simbolico del mito viene dunque offerta e immediatamente negata. Come nella scena di Orfeo, che accetta di perdere Euridice senza neppure essersi di fatto voltato a guardarla. O come in quella successiva e conclusiva, in cui persino le lacrime da piangere via sono ridotte a un artificio meccanico. Che fa scoppiare tutti in un’amara risata.

Sergio Lo Gatto

METAMORFOSI
(di forme mutate in corpi nuovi)
da Ovidio
traduzione Piero Bernardini Marzolla
adattamento e regia Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti
luci Max Mugnai
costumi Marion D’Amburgo
con Ilaria Drago, Alessandra Cristiani, Roberto Latini, Savino Paparella, Francesco Pennacchia, Sebastian Barbalan, Alessandro Porcu, Esklan Art’s Factory.
direzione tecnica Max Mugnai
organizzazione Nicole Arbelli
riprese video Mario Pantoni
foto Futura Tittaferrante
produzione Fortebraccio Teatro; Festival Orizzonti . Fondazione Orizzonti d’Arte
con il sostegno di Armunia Festival Costa degli Etruschi

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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