Roberto Nugnes debutta al Teatro dell’Orologio con un nuovo lavoro, Tsunami. Recensione
Oceano indiano, dicembre 2004. Giappone, marzo 2011. La parola tsunami si abbatte sugli schermi e nell’immaginario comune, creste di mare, barche e automobili trascinate in mezzo ai campi, alle case, video di superstiti arrampicati negli hotel, sugli alberi, grida sospese dal suono giapponese e dal silenzio atomico, turisti increduli in spiaggia, in fuga, paralizzati. La parola tsunami (nami: onda, tsu: contro il porto, maroso che si abbatte sul porto) sostituisce in pochi istanti il termine maremoto, quel moto ondoso che per noi italiani sa di inizio secolo, Messina, uno degli eventi più catastrofici dello stretto e del Mediterraneo degli ultimi cento anni.
Cosa c’entra tutto questo con il Teatro dell’Orologio e con lo Tsunami di Roberto Nugnes? C’è un’immagine, tra quelle del 2004, di un ragazzo a venti o trenta metri dalla riva perché prima della catastrofe l’oceano indiano si è ritirato e gli ha permesso di camminare sulla secca; è seduto dove prima c’era il mare, si alza in piedi, fissa immobile l’onda gigantesca che sta per travolgerlo, «that guy doesn’t want to move!» gridano, lui sta fermo nel costume rosso, arcua la schiena indietro, aspetta. Poi mare, nulla più.
Si può leggere un’intuizione nello spettacolo di Roberto Nugnes, guardare il popolo italiano sdraiato al sole degli anni ’80, nei fasti di un benessere diffuso in cui poter vivere al di sopra dei propri mezzi, pagare tutto a rate nell’opulenza e nell’esplosione dei consumi, anni di riscossa proprietaria in un “paese povero abitato da ricchi”; ci sono fenomeni che vengono da lontano, ingigantendosi in maniera abnorme. Non solo economici, sono gli anni del cosiddetto “Decreto Salvapuffi” (link) e dei successivi decreti che riaccesero le televisioni di Silvio Berlusconi e con le tv private un modello di mediocrità e arroganza, mentre la borghesia diveniva la vera classe universale e gli operai – le tute blu – sparivano per ritornare poi travestiti da risorse umane. Il liberismo diveniva ideologia di massa mentre un’onda all’orizzonte ipotecava il futuro delle generazioni successive. E gli italiani, lì, immobili a guardarla arrivare.
E ce n’è anche un’altra di intuizione nello spettacolo di Roberto Nugnes, nell’ambientare la scena su quella spiaggia e posizionare così gli spettatori nella secca, o forse nell’onda immensa che si vede arrivare; spettatori già travolti dalle conseguenze di quel decennio mentre dagli anni ’80 ci guardano, immobili al sole, due coniugi frustrati dal desiderio di avere una seconda casa, una seconda auto: una donna e un uomo che lavorano come parrucchiera in nero a domicilio, lei, come autore di sketch comici tra tette e volgarità in una tv privata, lui. Indebitarsi e ostentare. Sulla spiaggia libera – quella privata era ormai tutta occupata, perché tutti possono permettersi di pagare per farsi un bagno a mare – li raggiunge un poeta, simbolo dell’identità culturale di quegli anni. E infine una cartomante, che indicherà ai due coniugi quel poeta come “limite” da eliminare per la ricerca del loro successo (economico).
Tsunami? L’onda si intravede un attimo negli occhi del poeta, nel solo momento di silenzio in cui il mare si ritira e l’uomo inizia a capire che la catastrofe è imminente. Forse è questo ciò che davvero manca allo spettacolo, a quell’onda per far davvero paura tra una risata e l’altra: i silenzi. Lo spettacolo è un copione già scritto che conosciamo tutti, quasi viene da leggere Mediaset sul volto dell’autore televisivo mentre in maniera prima simpatica, poi poco credibile e ostentata, si predicono nei dialoghi gli stravaganti usi dei giorni nostri: il grande fratello, telefoni che possano fare foto e condividerle, parrucchiere alle prese con la manicure. Il contraddittorio al luogo comune è nelle argomentazioni filosofiche del poeta, indigeste vicine alla borsa frigo da spiaggia, sulla morale collettiva, lo spirito critico, il valore della lettura, la rivendicazione delle spiagge libere, il consumo scellerato di una persona per auto e lo spreco del “tempo liberato” dagli elettrodomestici. Nella ricerca dello stereotipo, seppur gli attori si avvicinino alle tipizzazioni del caso, la troppa parola ne diluisce l’immagine, la annega, questa sì. L’ingresso della cartomante richiede poi allo spettatore la fiducia di porgere la mano a una parlata spagnolo-gitana che richiederebbe lo stesso coraggio del fermarsi a farsi leggere le carte sotto i portici di Piazza Vittorio.
A metà spettacolo si prova a guardare il tutto solo come una commedia amara, che voglia far ridere, abbandonando ogni riferimento, ogni metafora, come un piccolo teatro dell’assurdo; forse gli anni Ottanta, l’onda dello tsunami non volevano dir nulla delle suggestioni fatte finora, però perché allora riferimenti così precisi alla realtà italiana di ieri, di oggi, perché uno tsunami su una spiaggia degli anni Ottanta? Come mai il poeta, mentre i coniugi del consumismo tentano di ucciderlo, chiama in causa la platea con un «e voi perché non fate niente e state lì impalati?».
Il finale è à la Psycho, con luci rosse e sangue sulle canottiere, mentre la coppia si rende conto che lo tsunami (sapevamo davvero cosa fosse uno tsunami durante quegli anni?) sta per travolgere tutto, ma la battuta finale della donna mina nello spettatore anche una possibile ultima lucidità di sguardo, tanto che l’applauso in conclusione si insinua tra le poltrone come uno scrosciare innocuo, un’onda che s’infrange debole poco prima del palco.
Luca Lòtano
Teatro dell’Orologio, Roma – aprile 2016
TSUNAMI
scritto e diretto da Roberto Nugnes
con Geremia Longobardo, Federica Flavoni, Raffaele Risoli, Maria Antonia Fama
aiuto regia Angelo Rizzo
scenografia Paolo Carbone
luci Pietro Frascaro