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Teatrosofia #36. Il teatro di Crantore (e lo spettatore scettico)

Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Serve il teatro per scegliere quale sia più sommo bene?

In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottorando di ricerca in filosofia antica all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.

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Tarocchi medievali
Tarocchi medievali: le quattro virtù cardinali

Diversamente dagli Stoici, che come si è visto entravano in costante confronto dialettico con il teatro o il lavoro dell’attore, i seguaci di Platone risultavano poco inclini a ricorrere all’immaginario teatrale per sostenere le loro dottrine. Uno dei rari Platonici che andò in direzione contraria fu Crantore. Infatti, accanto all’aneddoto insipido riportato da Diogene Laerzio, che riferisce come il filosofo paragonasse la brutta voce di un attore tragico a un ceppo di legno mal sgrossato, ci è giunta una sua gustosa prosopopea drammatica, attraverso i §§ 51-58 del Contro gli etici dello scettico Sesto Empirico.
Immaginate, diceva Crantore, un mastodontico teatro, in cui tutti Greci si radunano con l’intento di votare per acclamazione quale tra i beni generalmente riconosciuti dagli uomini (ricchezza, piacere, salute, virtù) possa ragionevolmente ricevere l’epiteto di “sommo bene”. E immaginate pure che questi stessi beni si personifichino e pronuncino – nell’ordine che si è detto – discorsi a favore della propria superiorità sugli altri. È evidente che il titolo di “sommo bene” arriderebbe all’ultimo bene a parlare, ossia alla Virtù. Essa è, del resto, ciò che consente agli uomini di usare correttamente gli altri tre beni, nonché di conservarli dalle cose che rischiano di distruggerli (malattie, dolori, furti). A seguire verrebbero la Salute, perché senza di lei godimento e opulenza materiale perderebbero di valore, quindi il Piacere, che è superiore al denaro – giacché quest’ultimo è usato per avere esperienze piacevoli – quindi la Ricchezza, che resta pur sempre benefica, essendo appunto il mezzo per raggiungere i beni che le sono superiori. Così facendo, Crantore opera una gerarchizzazione dei beni e suggerisce, da buon autore drammatico, che chi è virtuoso raggiunge tutto quello che un uomo possa desiderare. Infatti, chi ha la Virtù può ottenere e conservare salute, piacere, ricchezza, mentre chi ha solo la Ricchezza non ha garanzie di conquistare ogni giorno Piacere e Salute. Se ad esempio arrivasse una guerra, essa non darebbe il coraggio sufficiente per respingere il nemico e proteggere il denaro accumulato con lunghi anni di speculazione finanziaria.
Molte sarebbero le cose da notare, dalla prospettiva compositiva, sulla prosopopea drammatica di Crantore. Ad esempio, si potrebbe sottolineare il sottile gioco di alternanze dei discorsi pronunciati dalle personificazioni dei quattro beni: argomentazione → citazioni di versi (tratti da Omero ed Euripide, ossia i poeti preferiti dal filosofo) → argomentazione. O ancora, sarebbe interessante notare come la Ricchezza – che parla per prima e millanta di poter garantire a tutti in ogni momento salute, piacere e coraggio – si trova ad essere alla fine dell’agone l’ultimo bene da prediligere. Ma quello su cui vale la pena soffermarsi, forse, è la debolezza intrinseca della prosopopea di Crantore a convincere del tutto che la Virtù è il sommo bene che comprende tutti gli altri.
Una prima difficoltà è la seguente. Cosa sarebbe successo, se la Virtù avesse pronunciato il suo discorso per prima e la Ricchezza per ultima? Quest’ultima avrebbe vinto l’agone, poiché avrebbe detto che non si può divenire virtuosi senza usare il denaro, o ancora esercitare il coraggio in guerra senza l’acquisto di attrezzature adeguate, come armi e protezioni. Infatti, un guerriero eroico ma disarmato difficilmente avrebbe affrontato senza paura un nemico meglio equipaggiato. Crantore può far vincere la Virtù, insomma, perché sceglie sapientemente l’ordine in cui far parlare i quattro beni. Egli probabilmente sapeva che la mente umana tende a prediligere quello che appare per ultimo, rispetto a ciò che appare per primo. Sicché, facendo parlare la Virtù per ultima, Crantore riesce a condurre l’anima dello spettatore ad acconsentire a darle il titolo del “sommo bene”, cosa che non sarebbe avvenuta se la prosopopea avesse avuto uno sviluppo drammatico diverso.
La seconda difficoltà è che l’ascolto dei discorsi dei quattro beni non porta necessariamente ad accogliere la superiorità di uno sugli altri. Uno scettico come Sesto Empirico potrebbe anche ascoltare tutte le esibizioni e, invece di acclamare la vittoria per uno degli attori, potrebbe arrivare a sospendere il giudizio. Virtù, Piacere, Salute, Ricchezza hanno ciascuno le loro ragioni di vincere l’agone, dunque l’unica mossa logica è rinunciare ad attribuire a uno di loro la palma. Da questa premessa, si può supporre che lo scettico riterrebbe pure che il teatro non è il luogo in cui proporre una dottrina o tesi specifica. I personaggi drammatici portano, infatti, per forza alla sospensione del giudizio, perché incarnano tesi contrapposte, di cui non si può individuare quella vera o corretta. Se dunque ad esempio Sofocle volesse indurre con l’Antigone ad anteporre l’amore fraterno alla lealtà verso lo città, fallirebbe necessariamente nell’intento. L’ascolto delle ragioni di Creonte insinuerebbe il dubbio che, in fondo, è lui ad avere ragione, e potrebbe portare uno spettatore scettico a dire che non si sa se è in sé giusto andare contro la legge per obbedire all’amore per il fratello, o, al contrario se lo è, l’andare contro l’amore per il fratello per obbedire alla legge.
L’ipotesi deve restare speculativa. In fondo, Sesto Empirico non commenta in tal senso l’aneddoto di Crantore, pur avendone la possibilità, né in genere egli ama fare affermazioni positive sul teatro o sull’arte performativa – tra le rare eccezioni, vi è il richiamo, nel Contro i retori, al lavoro del mimo, per mostrare che il linguaggio non è in sé né buono, né cattivo. Ma se lo è, si individuerà un nuovo argomento contrario alla tesi che il teatro esista per edificare moralmente gli spettatori. Il suo specifico è la creazione della bellezza, senza preoccuparsi di essere giusti o ingiusti, buoni o cattivi.

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Della voce rozza e grossolana di un attore tragico disse che «non era sgrossata con la scure ed era piena di corteccia» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro IV, § 27 = Crantore, T1 Mette)

Quelli dell’Accademia e del Peripato, invece, dissero che essa [scil. la sapienza] è un bene, ma non il primo. Ritennero infatti che si debba attribuire a ciascun bene il proprio posto e valore. Perciò anche Crantore, volendo indurci alla dimostrazione di ciò che si diceva, si servì di un esempio davvero gradevole. «Se infatti potessimo concepire», dice, «un teatro comune a tutti i Greci, e che in esso ciascun bene fosse presente e gareggiasse per il primo premio, saremmo immediatamente condotti alla concezione della differenza tra i beni. La ricchezza, infatti, saltando su per prima, dirà: “io, o genti di tutta la Grecia, a tutti gli uomini offrendo ornamento e vesti e scarpe e altre comodità, sono indispensabile a chi sta male ed a chi è in salute, e in pace procuro le cose piacevoli, in guerra divento nerbo delle azioni”. Tutti i Greci concordemente, avendo udito questi discorsi, ordineranno di consegnare il primo premio alla ricchezza. Mentre questa sta per essere proclamata vincitrice, però, qualora il piacere, levatosi in piedi, [recitasse] “lì v’è l’amore e il desiderio e l’incontro, / la seduzione, che ruba il senno anche ai saggi” e postosi nel mezzo dica che è giusto proclamare lui vincitore (“la ricchezza infatti non è salda, ma effimera / vola via dalle case, dopo aver fiorito per piccolo tempo”, ed infatti viene desiderata dagli uomini non per se stessa, ma per il godimento e piacere che ne deriva), sicuramente tutti i Greci, ritenendo che le cose non stiano diversamente da così, gridando sosterranno che bisogna incoronare il piacere. Nel momento in cui questo si accinga a ricevere il premio, però, allora si presenta la salute con le divinità che l’accompagnano e chiarisce che, mancando lei, non vi è alcun vantaggio nel piacere né nella ricchezza (“in che cosa infatti ricchezza mi giova, quando sono malato? / vorrei, pur avendone ogni giorno una piccola parte, / vivere un’esistenza priva di dolore piuttosto che, ricco, giacere malato”). Tutti i Greci, avendo di nuovo ascoltato e compreso che la felicità non può sussistere [se] allettata e malata, affermeranno che la salute è vincitrice. Mentre la salute celebra la vittoria, pure allora esce fuori il coraggio, avendo intorno a sé gran sciame di eccellenti eroi, e facendosi innanzi dice: “se io non ci sono, o uomini greci, il possesso dei beni per voi diventa estraneo, e i nemici arriverebbero a pregare che voi prosperiate in tutti i beni, accingendovi a dominarvi”; ed i Greci, udito ciò, assegneranno il primo premio alla virtù, il secondo alla salute, il terzo al piacere, mentre ultima collocheranno la ricchezza» (Sesto Empirico, Contro gli etici, §§ 51-58 = Crantore, fr. 7 Mette)

Fra tutti i poeti Crantore ammirava Omero ed Euripide, dicendo che è ardua impresa raggiungere l’altezza tragica e suscitare un sentimento di compassione col linguaggio proprio della vita quotidiana. E citava come esempio questo verso del Bellerofonte: «Ohimè! Ma perché ohimè? Umana è la nostra sofferenza» (Diogene Laerzo, Vite dei filosofi, libro IV, § 5 = Crantore, T1 Mette)

D’altra parte un linguaggio di per sé non è né bello né brutto. Ne è prova il fatto che la stessa espressione, se usata da una persona fine e di riguardo, ci offende, ma non ci offende affatto se è usata da un mimo con l’intenzione di far ridere (Sesto Empirico, Contro i retori, § 56)

[I frammenti e le testimonianze di/su Crantore sono edite da Hans Joachim Mette, Zwei Akademiker heute: Krantor von Soloi und Arkesilaos von Pitane, in «Lustrum», 26 (1984), pp. 8-40. La traduzione di Diogene Laerzio è tratta da Marcello Gigante (a cura di), Diogene Laerzio. Vite dei filosofi. Volume 1, Roma-Bari, Laterza, 1998. Invece, la resa italiana del Contro i retori di Sesto Empirico è di Antonio Russo (a cura di), Sesto Empirico. Contro i matematici: libri I-VI, Roma-Bari, Laterza, 1972, mentre quella del Contro gli etici dello stesso autore è di Emidio Spinelli (a cura di), Sesto Empirico. Contro gli etici, Napoli, Bibliopolis, 1995]

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

2 COMMENTS

  1. Certo la sequenza delle argomentazioni è fondamentale.
    Ricordo che il mio maestro delle elementari (che sempre ringrazierò) quando ci raccontava Giulio Cesare, rifacendosi a Shakespeare, asseriva che il grande errore di Bruto fu non tanto parlare per primo, quanto abbandonare il foro lasciandolo nelle mani di Marcantonio.
    Marcantonio mantiene le promesse. Non parla apertamente male dei congiurati, ma insinua nel popolo il dubbio del tradimento. Bruto avrebbe potuto controbattere (dunque parlare per ultimo), e forse ribaltare gli eventi.
    Un caro saluto.
    Claudio

  2. Caro Claudio,

    non posso che convenire con il tuo esempio: te ne ringrazio e ne farò uso in futuro. Posso solo aggiungere che sei stato ad aver fortunato ad avere un insegnante elementare come quello che descrivi. A presto,

    Enrico.

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