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Lettera ai giovani. Per un teatro gigante

Una lettera ai giovani. Per dire dell’emozione, del limite sfumato tra il palco e la platea, la vita e la morte. Degli sguardi rubati ai ragazzi seduti di fronte al teatro.

Lettera ai giovaniVi vedo,
ragazzi con gli occhi in un punto impreciso del cielo e le scarpe di gomma pur che nulla sapete dei fulmini, riccioli dispersi vi cadono dalle spalle, lo so che in tasca avete le cuffie, quelle grosse che prendono tutto l’orecchio, perché fuori, poi, quando tornate, volete stare con voi, non vi piace la ferraglia con cui bestemmia la città. Vi vedo, e sento ciò che non mi dite, chiedete in quel silenzio spiegazioni, soluzioni che non ho. Avete un cuore che batte un’aritmia sconnessa, lo conosco ché a me faceva lo stesso, non si sa mai bene per cosa decida di battere, con quale ritmo prenderti la gola; perché poi succede qualcosa, quei passi di mille balli diversi finiscono per diventare un ballo tutto tuo, l’emozione che provi e non sai perché inizi a darle un nome, inizi a sentirla arrivare e a vederla pure andare via: è quello il momento in cui si abbandona il tempo dei sensi che ci si mette una vita intera a tentar di ritrovare. Eppure voi, ragazzi miei che non avete data di scadenza, non lo sentite ancora il tempo scandire, l’emozione è un avvenimento confuso in una giornata che può valere una vita; voi lo sapete meglio di me il teatro che vi racconto, avete la bocca socchiusa in un confine tra il fiato che entra e quello che esce, tra ciò che vi fa respirare e un dono all’aria di un respiro più grande.

Siamo entrati insieme, a vedere l’attore tra le spighe di un campo coltivato da altri, un secolo indietro. L’attore sul confine tra sé e noi, in bilico, “agli orli” di qualcosa che stava per avvenire e che poco dopo non era già più, s’arrampicava dentro una vicenda per afferrare parole di chi stava dicendo la fine, la propria, quella di tutti, quella che lui più di altri aveva saputo chiamare teatro. C’è chi ci vive, di teatro, nel teatro, perché ha capito che morire in scena è l’unico modo di non morire per davvero, che in questa parola – teatro – il senso della vita è racchiuso come una corolla di fiore in un ventaglio di petali, che cioè sulla scena avviene qualcosa di straordinario, capace di rappresentare i sentimenti che abbiamo provato, i pensieri che ci sono sfuggiti, spostandoli fuori di noi, di fronte ai sensi che possono così – con l’emozione – riprendersi tutto indietro.

Dice l’autore, Luigi Pirandello, in questi Giganti della montagna che «i sogni, a nostra insaputa, vivono fuori di noi, per come ci riesce di farli, incoerenti». E allora bisogna fidarsi di quel silenzio in cui ciò accade, quelle nuvolette su cui rimbalzano le cose che stanno nei sogni, diverse da come le conosciamo da svegli, quando sembrano tutte ordinate; nei sogni e nel teatro le cose stanno come per miracolo: messe male, senza logica, ma proprio nel modo in cui sembrano assomigliarci di più. Quelle musiche, quelle luci, quelle parole e gli occhi di un attore che vi cerca i vostri, tutto insieme vi lascia a non capire più se quel fiato, ora, stia per entrare oppure uscire dalla vostra bocca, se quel che accade in scena siete voi senza di voi, oppure è un altro che sta pian piano diventando qualcosa che non si capisce, che non si afferra, eppure tanto vi somiglia.

E ora ditemi, ragazzi miei, quelle bolle di sapone le avete viste scendere dall’alto di un soffitto inesistente oppure l’avete viste salire dal tappeto su cui dirsi sospese? Io non sono sicuro, lo posso rivedere mille volte e non lo so, se quelle piccole sfere stiano andando su o giù nel vuoto semioscuro della scena, perché gli occhi miei vanno in ogni caso al senso contrario, assecondano quel loro fluttuare e mi fanno sentire un po’ che sto galleggiando anch’io. E voi che state a guardare il cielo, non l’avete visto lo stesso pur che solo c’era scritto sul fondale? Le ombre e le urla dei Giganti, non sono già esse stesse i Giganti? Non sentivate suoni di giorno e suoni di notte, in quello spazio che era sempre lo stesso, a dire il tempo delle giornate? Il teatro è un segreto che sta su quel confine, “agli orli” proprio con la vita, su quel limite sfumato che non si capisce più se stiamo di qua o di là, se quello in scena è l’attore oppure se quelli sulla scena siamo noi e lui, fantasma appeso a un trampolino con il sipario intorno, ci guarda; chissà che pensa, chissà se pure lui lo vede il cielo azzurro, dietro le nostre spalle, se quando il sipario si chiude e lui finisce dentro, ci ha lasciato fuori, oppure senza più filtro per rappresentare, senza più vergogna per esistere, ha portato dentro pure noi.

Dedicato a Giuseppe Vespia.
Ai resistenti sognatori.

Simone Nebbia

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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