La trilogia della Memoria firmata da Caterina Gramaglia va in scena al Teatro Studio Uno di Roma. Recensione.
Anche quest’anno, e sempre più spesso sulla scena romana, i teatri e gli artisti stanno offrendo al pubblico una possibilità alternativa di incontro: approfondire la conoscenza di un autore o di una compagnia attraverso percorsi monografici che permettano in pochi giorni di intraprendere un dialogo con le tematiche e con il linguaggio che un autore ha invece sviluppato in un arco di tempo più ampio e in diversi contesti. In una o due settimane, come una breve maratona, il teatro permette un accesso storico a una poetica, concentrandola in una teatrografia, seppur parziale ma comunque sufficiente, che esuli dal singolo episodio e ne lasci intravedere la direzione in una nuova produzione. Modalità di un teatro in tempo di crisi economica o approccio olistico? Sicuramente possibilità di fruizione che vale come provocazione ulteriore nel patto tra artista e spettatore, dando ai due la possibilità di scoprirsi concedendosi un secondo, un terzo appuntamento oltre la passione della prima sera.
Ancor più significativa è questa modalità quando le unità drammaturgiche rientrano in una proposta autoriale di “trilogia”, evidenziando così la connessione tematico-stilistica dell’unicum artistico. Questa la strada scelta da Caterina Gramaglia per la sua Trilogia della Memoria in scena al Teatro Studio Uno con Cabala, White Room e Le lacrime di Giulietta, anche se stavolta ci si chiede se la “trilogia” non sia diventata una sequenza nella quale inserire sommariamente lavori firmati da uno stesso autore. Anche se gli ultimi due spettacoli sono in questo caso compressi e affiancati in una sola “serata”, accomunati da un personaggio che fa da fil rouge tra l’uno l’altro, divisi da una scritta che abbozza a un “fine primo tempo”, ma lontani certamente dall’essere una monade.
La prima settimana di Cabala, spettacolo in prima assoluta realizzato in Residenza Temporanea insieme all’autrice e regista Rosa Morelli, lascia un sapore di incompiuto e presenta un’idea narrativa funzionale ma ancora non pienamente funzionante: quella di ripercorrere la cultura ebraica e la memoria della comunità romana attraverso le sfere della Cabala. 16 ottobre 1943, data del rastrellamento del ghetto: l’albero della vita con le sue dieci Sephirot diventa anche albero genealogico dei personaggi che in brevi – a volte davvero brevissimi – spunti rievocano tra parole, immagini e musiche dal vivo di Edù Nofri, gli insegnamenti esoterici e mistici dell’ebraismo e l’umiltà di un quotidiano oppresso dalla paura. L’atto unico si chiude però troppo velocemente, senza alcun punto di svolta, con la stessa fretta con la quale vengono abbozzati alcuni personaggi, rimasti come poco più che lampi a sé stanti.
L’appeal della trilogia, però, stavolta ha il suo effetto: ritorno la settimana successiva, per non lasciare incompiuto il tentativo, e così l’incontro avviene. In White Room/Le lacrime di Giulietta, con cui l’autrice, regista e interprete di Pisa è volata al Fringe Festival di New York dopo il Premio off nella versione italiana del 2013. Caterina Gramaglia si lascia guardare dal pubblico attraverso il caleidoscopio del proprio talento e in tre o quattro frammenti crea quella molteplicità di strutture simmetriche che restituisce alla stanza bianca le tonalità della follia. E del suo teatro, dove la forza comica è racchiusa in un’attrice sopra le righe di ispirazione giapponese con un grammelot che un po’ troppo spesso cade nel facile suffisso italo nipponico “kazz”, nell’ironia di una grottesca Dora Nuselli la quale nel suo exploit scenico si rende conto di non essere sul palco del Teatro Argentina, e nella poesia di Gelsomina, personaggio felliniano che permette allo spettacolo di versare l’energia raccolta dalla creazione comico-demenziale nello sguardo trasognato dell’assistente di Zampanò (dal film La Strada).
È dallo stesso mantello di Gelsomina che vien fuori l’ultimo spettacolo Le lacrime di Giulietta (Masina), dedicato al pianto con il quale l’interprete de La Strada, nonché moglie di Fellini, ha accompagnato la consegna dell’Oscar al regista italiano («Giulietta please stop crying!»); quelle lacrime che condensavano la vita artistica e personale di un’attrice osannata nella sua poetica comicità perfino da Charlie Chaplin. È in questo frangente che tutta la trilogia di Gramaglia trova il suo valore: oltre la potente dote attoriale, la splendida voce con la quale intona le musiche di Caetano Veloso suonate dal vivo dalla chitarra di Ennio Speranza, la mimica, l’uso dei video, la capacità di disegnare innumerevoli personaggi, la vena comica sopra le righe, oltre tutto questo che a tratti arriva più come uno showreel che come una visione organica, l’autrice/attrice riesce a incarnare lo sguardo di Gelsomina e Giulietta, restituendone la malinconica e poetica comicità. Essere attrice, autrice, regista. Forse una regia, un occhio esterno, potrebbe impreziosire la solitudine dei personaggi, a condensare meglio il talento dell’interprete e l’emozione del suo sguardo.
Luca Lòtano
Roma, Teatro Studio Uno – febbraio 2016
CABALA
Progetto di Caterina Gramaglia e Rosa Morelli
con Caterina Gramaglia, Edù Nofri
video: Carolina Ielardi
con la collaborazione di Sycamores T Company
fonica/luci: Martin Emanuel Palma
WHITE ROOM/LE LACRIME DI GIULIETTA
Di e con Caterina Gramaglia
chitarra: Ennio Speranza
musica di: Caetano Veloso
costumi: Gloriana Manfra
disegno luci: Paolo Meglio
Si ringraziano: Iolanda Salvato, Rosa Morelli e Sebastiano Covone