Valter Malosti dirige Il berretto a sonagli di Luigi Pirandello al Teatro India. Recensione
Apparenza tra apparenza, diceva uno degli ultimi personaggi di Pirandello, quel Cotrone che rifuggì la realtà dei Giganti del potere e della manipolazione, scegliendole il teatro. Perché fuggire? I motivi erano e rimangono ancora troppi. Immaginatevi al cospetto di una comunità di persone, siano esse abitanti di un paesino siciliano oppure una gonfiata moltitudine di invasati, pronti a fare di tutto in nome del buon costume, di quell’apparenza, appunto, di cui il carattere siciliano è intriso. Fare tutto affinché nulla cambi.
Vorrei parlare del Berretto a sonagli, diretto da Valter Malosti, ma indugio più di una volta sulle polemiche scaturite dal decreto Cirinnà, la manifestazione per i diritti civili che affollava le strade di Roma proprio quando mi recavo al Teatro India, sui fantomatici due milioni di manifestanti della famiglia naturale. A distogliermi la mente dalla scena è proprio la scena stessa, quella in cui una donna tradita vorrà gettare nello scandalo il marito, a costo di trascinare tutti con sé nell’infamia. È tutto pronto per la trappola ordita, non si ascoltano i dettami dei parenti imborghesiti e volgari, sguaiati e per questo tanto più prudenti (perché figli della morale immutabile). «Lo dovete offrire a Dio il sacrificio!» le urlerà la cameriera, detentrice del più alto grado di saggezza popolare. Che vuol dire? Secondo Pirandello significa: sta’ zitta. Meglio pazza che curnuta. Ed è quello che succederà veramente a Beatrice, questa sublime femminista fuori contesto interpretata in maniera altrettanto sublime da Roberta Caronia. Dei diritti e della civiltà rimane un detto, Povera e pazza: al contrario di quanti ostentano in piazza la contraddizione di predicare bene e razzolare male (lì dove il “male” è definizione data dal soggetto che opera, dunque doppiamente colpevole di additare gli altri discolpando sé stesso), la nostra protagonista sarà costretta a fuggire di soppiatto in una clinica – «in vacanza! Tranquilla, un paio di mesi» – perché oramai la verità è stata svelata e l’unica soluzione sembra sia fingere che sia tutta un’esagerazione, un gioco, del teatro.
La famiglia di cui si affanna la generalizzata difesa è ancora questa descritta esattamente cento anni fa dal drammaturgo agrigentino (ma venuta alla luce soltanto molti anni dopo). L’unico che possa dichiararne la sconfitta è colui che indossa il berretto a sonagli, il pazzo, l’unico a cui sia concesso il lusso di dire la verità senza che venga messa in discussione. Nel nostro caso a vestire i panni del buffone è lo stesso regista, dando alla luce un misurato e al contempo machiavellico Ciampa e asciugando quel ruolo cucito per un mattatore delle scene quale Angelo Musco a favore di una resa molto più corale. La sua è un’azione sotterranea, che dice oltre quanto comunicano le parole, i gesti, la sua “pazzia” è contrapposta alla rozzezza della moglie (forse un tantino eccessivo il tratteggio grottesco da femme fatale con voce da lavandaia), alla ferinità di Beatrice o alla sguaiataggine delle altre donne. Vengono messe in gioco forze uguali e contrarie, pronunciate in una lingua che recupera le tonalità siciliane, tra le inflessioni palermitane e catanesi degli attori, i quali però ogni tanto rischiano di cadere eccessivamente nel gusto per la macchietta, distogliendo dalla tragedia in atto e arrivando quasi al limite con la farsa. Tinte forti anche per la scena (Carmelo Giannello) dalle quinte nere lucide – viscide e deformanti come la realtà che riflettono – assieme a uno specchio rovinato e alla pedana centrale sulla quale Donna Beatrice rimarrà come una belva inferocita fino alla fine della pièce. Scomposta come fosse un fuoco pronto a divampare, come il rosso di cui si tingerà la scena, la beffata urlerà alla fine contro la sua sventurata controparte, quella Sicilia – ma potremmo allargarci anche all’Italia intera – che rimane silente contro le innumerevoli ipocrisie. Perché il senso di giustizia è un’utopia fallita, produce vergogna, induce pazzia. Eppure, se ci dichiareremo tali potremo indossare quel distintivo berretto, chissà che il sonaglio non riesca a mordere la coscienza di qualcuno.
Viviana Raciti
Visto al Teatro India, gennaio 2016
23-24 febbraio | Lac |Lugano
26 febbraio | Teatro Milanollo | Savigliano (CN)
8-9 marzo | Teatro Ponchielli | Cremona
IL BERRETTO A SONAGLI
di Luigi Pirandello
adattamento e regia Valter Malosti
con Roberta Caronia, Valter Malosti, Paola Pace, Vito Di Bella, Paolo Giangrasso, Cristina Arnone, Roberta Crivelli
luci Francesco Dell’Elba
scene Carmelo Giammello
costumi Alessio Rosati
macchinista e direttore di sala Gennaro Cerlino
assistente alla regia Elena Serra
assistente ai costumi Michela Pagano
realizzazione costumi Laboratorio Nuvia Valestri
sarta di compagnia Aurora Damante
parrucche Mario Audello
si ringraziano Alessio Maria Romano, Alessio Foglia
produzione TEATRO DI DIONISO
con il sostegno del Sistema Teatro Torino
Più che di macchiette e farse, si tratta di far risuonare le origini di Pirandello. Malosti ha pescato dalla prima versione – scritta appunto in siciliano – e ha usato volutamente i toni e i modi della commedia popolare e dialettale – ammiccante e caricaturale, che ancora oggi è un fenomeno molto diffuso. Non è bello accorciare le distanze tra il teatro degli stabili e quello popolare? Non è bello riflettere su come un premio Nobel conosciuto e rappresentato in tutto il mondo possa avere in sé anche quel retroterra culturale regionale?