Daniele Cipriani si conferma impresario di rilievo e ha promosso un nuovo gala con alcuni tra i più grandi nomi del jet-set del balletto internazionale. Recensione
Un impresario teatrale che accoglie il suo pubblico nel foyer indossando uno smoking e attende l’entrata dell’ultimo spettatore prima di prendere a sua volta posto nella platea gremita è una visione d’altri tempi. Eppure siamo veramente nel 2016 e senza dubbio il nome di Daniele Cipriani è da annoverare tra quelli di coloro che stanno maggiormente investendo nella cultura del balletto e della danza in Italia. Risultato beneficiario di un congruo sostegno alla produzione da parte del FUS, avevamo deciso di intervistarlo (qui) per conoscere meglio la visione, le intenzioni e i sogni di un giovane impresario che da subito ci fece pensare a un Sergeij Diaghilev del XXI secolo.
Avevamo allora scoperto che si può fare questo mestiere anche nel tempo presente, nel tempo attuale della crisi e dei tagli alla cultura. È possibile usando i giusti mezzi, perseverando come tutti siamo chiamati a fare in questo settore, e avendo chiara l’identità – tanto aziendale quanto personale – che dal proprio lavoro si proietta verso l’esterno. Condivisibile o meno, come è ogni cosa, la linea prescelta sembra essere chiara.
È passato qualche mese dalla nostra intervista e nel frattempo diverse sono state le occasioni in cui abbiamo potuto assistere ai frutti del suo lavoro. Dal prezioso Quartet Gala con Mats Ek, Ana Laguna, Susanne Linke e Dominique Mercy al ritorno in scena di Alessandra Ferri, fino alla Rassegna Tersicore passando per una collaborazione costante con l’étoile dell’Opera di Parigi e direttrice del corpo di ballo capitolino Eleonora Abbagnato, il percorso del giovane impresario romano – impegnato su vari fronti – sembra essere in ascesa. Con il sostegno della Fondazione Roma, la 10° edizione della Rassegna Tersicore ha già dato vita all’unica data italiana del Royal New Zealand Ballet, la compagnia diretta da Francesco Ventriglia, un gala con la dea del balletto Svetlana Zakharova e il violinista Vadim Repin, il gala di superstar Les Etoiles andato in scena nei giorni scorsi all’Auditorium Conciliazione e si chiuderà infine in marzo con il flamenco di Sara Baras.
Si tratta a tutti gli effetti di una programmazione di alto profilo che riempie quello spazio vuoto situato tra l’offerta di balletto dei teatri dell’opera e la danza programmata dai festival di più ampio respiro, come Romaeuropa Festival, o da alcuni teatri che, per legge o per scelta, non escludono la danza dalle proprie stagioni ma nemmeno ne fanno il loro “prodotto” di punta.
Reduce da tante altre platee della danza tristemente piene solo a metà, è interessante interrogarsi, per chi scrive, su quale pubblico riesca a essere raggiunto e fidelizzato all’arte coreografica da spettacoli-evento – dai gala, appunto – come quelli ideati dalla Daniele Cipriani Entertainment. Sarebbe scorretto, non tanto a onor del vero quanto a onor della storia, fermarsi all’idea secondo cui l’iniziativa privata sia da considerarsi necessariamente sostenuta da uno spirito commerciale; si pensi solamente all’esperienza dei Balletti Russi.
È evidente come esista una parte di pubblico attratta dalla qualità e dalla risonanza mediatica di alcune scelte, certo, ma oltre a questo c’è una vera e propria domanda di mercato diversa che, radunata tutta insieme, costituisce un contesto che non è né quello dei teatri lirici veri e propri né quello della danza cosiddetta “contemporanea”. E chissà se mai ci libereremo di quest’ambigua etichetta che non solo confonde un uso estetico e un uso cronologico di una supposta “categoria” coreutica, ma inoltre classifica e separa il pubblico della danza che, non potendosi educare diversamente all’arte se non facendo qualche tentativo a teatro o accendendo la TV, si scompone invece che restare unito. Diventa quindi importante approfittare di quest’occasione per ricordare come il pubblico della danza sia uno, mentre molteplici non sono “le danze”, ma i gusti e i desideri secondo cui ciascuno sceglie liberamente cosa andare a vedere.
Marianela Nuñez e Thiago Soares (The Royal Ballet), Iana Salenko e Marian Walter (Staatsballett Berlin), Rebecca Bianchi (Teatro dell’Opera di Roma) e Claudio Coviello (Teatro alla Scala), Lucia Lacarra e Marlon Dino (Bayerisches Staatsballett) e Daniil Simkin (American Ballet Theatre) sono le star che abbiamo visto in azione. Tra questi, che sono alcuni tra i più grandi nomi del jet-set del balletto internazionale, i primi ballerini Rebecca Bianchi (intervista) e Claudio Coviello hanno mostrato un ottimo esempio di “scuola italiana”. Impegnati nel passo a due del II atto di Giselle e nel passo a due del I atto di Romeo e Giulietta di MacMillan, i giovani ballerini hanno sfoggiato una solida tecnica e una sicurezza espressiva in crescendo che di certo li porterà lontano. Di tutte le coppie non si potrebbe scrivere altro che elogi, per i loro virtuosismi soprattutto. La selezione delle coreografie ha naturalmente previsto alcuni imprescindibili classici come i due passi a due del II e del III atto del Lago dei Cigni o i pas de deux da Don Chisciotte e da Diamonds di George Balanchine. In mezzo a questi estratti di balletto, alcune coreografie non di repertorio tradizionale hanno ulteriormente messo in luce le qualità degli artisti. Una su tutte, la prodigiosa tecnica aerea di Daniil Simkin (qui a 17 anni nella stessa coreografia presentata a Roma).
È una forma spettacolare di antiche origini, il gala, e sembra rispondere alle esigenze di un pubblico trasversale accontentando tanto il “ballettomane” più accanito quanto lo spettatore debuttante. La facilità della visione è dovuta non alla tipologia di contenuto quanto a una forma che si compone di una serie di highlight altamente riconoscibili tratti dal repertorio dei danzatori invitati, che mette in risalto soprattutto le capacità espressive e tecniche degli artisti in scena. La dimensione quasi “circense” e “quantitativa” della danza non va sottovalutata né esclusa dall’esperienza spettatoriale. In fondo, non è forse lecito supporre che il principio che muove il piacere della visione di uno spettatore sedotto dai 32 tour fouettés di una ballerina sia lo stesso di quello di chi resta sedotto dalle 24 ore di spettacolo di Jan Fabre? Non siamo forse tutti in cerca di una dose di meraviglia quando varchiamo la soglia di un teatro?
Gaia Clotilde Chernetich