Ladyoscar di Ferdinando Vaselli, visto al Teatro Studio Uno, mette in scena una generazione fragile e perduta, ma senza retorica e giudizio. Recensione
Il cinema italiano spesso ha saputo raccontare l’emarginazione sociale, il ricatto della droga e la disperazione. Ma la macchina da presa può lavorare sui primi piani – quelli di Pasolini ad esempio solcati dal tempo e dalla povertà –, può raccontare disegnando passaggi desolati, periferie marittime senza speranza, come nel caso di Claudio Caligari e della sua Ostia tossica. In teatro, va da sé, è diverso, forse meno immediato: ci sono i corpi e le parole che questi possono produrre. E nel caso di un testo cucito su un dialogo strettissimo tra due giovani, se i temi sono quelli di cui sopra, il rischio di cadere nella retorica è un pericolo con il quale drammaturgia e regia non possono non avere a che fare. Ne è ben consapevole Ferdinando Vaselli che ormai da qualche anno gira l’Italia con un piccolo, ma pregiato spettacolo che attraverso una scrittura elaborata tramite l’ascolto di storie e personaggi reali rappresenta lo spaccato preciso di una delle tante desolazioni umane della nostra società.
L’immaginario appunto è quello che troveremmo nei film di Caligari (e del suo litorale romano) se fossero ambientati oggi, ma l’intreccio e i pochi accadimenti che lo compongono sono immobilizzati in un presente senza scampo, con pochissimi stacchi temporali. Quello che non accade nella scena è anche quello che non accade nella vita: i due protagonisti sembrano aver tirato i remi in barca, il loro tempo è quello di un divano sul quale scherzano, litigano, si sparano la dose in attesa di un’altra dose, e ancora un’altra. Per lo spettatore – ci è capitato di vederlo al Teatro Studio Uno di Roma – semplicemente potrebbe essere una situazione congelata da anni. Sono post-adolescenti, vivono di un amore precario, ma non hanno altro che loro stessi e uno spazio di vita che si anima di ricordi, paure, sogni e desideri ingenuamente esibiti.
Ferdinando Vaselli (compagnia 20ChiaviTeatro), anche regista, non ha bisogno di raccontarci quasi nulla del passato dei due, con il contagocce sparge qua e là piccoli indizi che però non determinano il peso di un giudizio. Una provenienza borghese per lui e forse maggiori difficoltà economiche e familiari per lei. Non siamo chiamati ad amarli od odiarli, non siamo gli spettatori, come spesso accade, di una riflessione sociologica a buon mercato, li sentiamo vicini, possibili e al contempo posticci.
C’è pure da dire che questo strano impasto drammaturgico basato sul dialogo, che a tratti si interrompe nella logica per trasformarsi in una serie di musicali sfottò e intercalari, ha buon gioco nelle capacità attoriali di Alessia Berardi e Riccardo Floris. È davvero un piacere ascoltarli alle prese con questa meccanica di precisione in cui la calata romana è ritmo vivo, unica voce possibile di quell’astinenza dalla vita messa in scena dai due e che a ogni scambio termina con un liberatorio “pippamo?”.
La droga, di tanto in tanto li apre al desiderio o al ricordo di un’infanzia consumata davanti alla tv, nell’epoca di Lady Oscar, personaggio che allo spettacolo dà il titolo. Fuggire in Olanda, ricominciare da capo, è il sogno di lei, aggrappata a un’ipotesi di futuro che la faccia allontanare da una vita meschina, quella dei genitori, dei conoscenti ormai arresi. Ma il sogno è destinato a rimanere tale e la consapevolezza è come una ferita nel volto malinconico di Alessia Berardi, attrice dalla voce graffiata e suggestiva.
Una preghiera a Cristo, che li aiuti a raggiungere la pippata quotidiana, un saluto fascista, una serie di sfottò razzisti, l’incubo dello struscio sul lungo mare in cui il calore squaglia abiti e accessori di marca: è questo il vero dramma, non poter più apparire, mostrarsi nudi e incapaci di simulare bellezza e forza.
Andrea Pocosgnich
visto a gennaio 2016
Teatro Studio uno, Roma
LADYOSCAR
Drammaturgia e regia di Ferdinando Vaselli
Con Alessia Berardi e Riccardo Floris
Musiche di Sebastiano Forte