Prima di morire la madre di Pippo Delbono chiede al figlio: «Pippo, perché non fai uno spettacolo su Gesù?». Così nasce Vangelo, al Teatro Argentina di Roma.
Prima di morire, la madre di Pippo Delbono chiede al figlio: «Pippo, perché non fai uno spettacolo su Gesù?». Così nasce Vangelo, il nuovo lavoro in scena per due settimane al Teatro Argentina di Roma dopo il debutto al Teatro Nazionale Croato di Zagabria, che questa volta coproduce insieme a ERT e Théâtre Vidy Lausanne. Come ormai quasi di consueto, da un aneddoto privato scaturiscono le idee per un lavoro teatrale che, come ormai quasi di consueto, mescola immagini video-fotografiche di basica fattura, azione di gruppo e intervento dal vivo dell’artista stesso, che attraversa scena e platea in abiti casuali brandendo un microfono a gelato la cui base illuminata gli permette di leggere da un mazzo di fogli sfusi. Se il tema è Gesù, per Delbono il tema è innanzitutto l’amore. L’amore negato, l’amore rifiutato, l’amore ghettizzato, l’amore che si fa colpa, che si fa onta, che si fa male di proposito, l’amore quello sporco dei «luoghi bui», l’amore urlato, l’amore. Lo stesso amore che abbiamo ascoltato raccontare dall’artista ligure nei dieci anni trascorsi. Degli episodi del Nuovo Testamento restano la lapidazione dell’adultera, la preghiera a Getsemani, il processo di Pilato, il suicidio di Giuda, la crocifissione, la resurrezione. Nel mezzo, squarci delle Scritture più antiche come la tentazione di Eva irrompono con la stessa agilità usata dal racconto di ricordi d’infanzia quando la colonna sonora era Sympathy for the Devil, da una coreografia kitsch sulle note di Jesus Christ Superstar, grandiose partiture di Enzo Avitabile accostate a Stairway to Heaven, Schumann e Don Giovanni.
Non staremo esagerando con gli elenchi separati da virgole? Eppure proprio questo è il ritmo seguito dallo spettacolo, dettato da una voce onnipresente che snocciola ogni possibile suggestione a partire dagli insegnamenti (preziosi o deleteri) del Cristo, partendo e poi tornando ai dedali della storia privata ma con la pretesa di attraversare una popolosa legione di argomenti e massimi sistemi. In apertura, il palco vuoto ospita una fila di poltrone rosse stagliate in proscenio, sullo sfondo un muro grigio con al centro due cinghie di cuoio all’altezza giusta per allargare le braccia a croce. L’intera Compagnia Delbono abiterà la scena al ritmo di entrate ora dimesse ora sontuose negli affascinanti e sgargianti abiti disegnati da Antonella Cannarozzi. Lo schema “a numeri”, quasi mai regolato da una reale costruzione drammaturgica, non permetterà di ricordare i particolari di questa parata, lasciando – forse volutamente – fisse nella memoria le scene di più lunga durata. Certo è che le musiche non abbandoneranno mai la scena, salvo nei momenti (numerosi) in cui la presenza ierofantica di Delbono si impossessa di occhi e orecchie, leggendo col solito fiatone nella voce stralci di Prévert, Pasolini e Sant’Agostino intrecciati a righe (pur ispirate) di propria mano, senza offrire soluzione di continuità.
Per quanto ormai la cifra visiva di questo artista sia talmente codificata da non riuscire – forse inconsapevolmente, forse no – a smarcarsi dall’autocitazione continua, al cospetto di certe immagini forti e suggestive (disegnate come al solito alla perfezione dalle luci di Fabio Sajiz) interviene spesso il tentativo di immaginarsi una scena silenziosa, pura, per una volta coraggiosamente frontale e surreale, per una volta libera di una voce, di una presenza e di una scelta musicale che invece dettano al pubblico il percorso esatto delle emozioni da provare. Ma, ancora una volta, sembra più urgente per l’autore ricordare a tutti che la sua compagnia raccoglie esistenze al limite, specificare gli anni di manicomio vissuti da Bobò, i mesi di prigionia di uno e l’emarginazione dell’altro. La vena radicale, ferina, viscerale che apparentemente piace a produttori e distributori esteri passa per essere un marchio di italianità, tramutandosi in un lasciapassare per le dogane teatrali pur se, all’atto pratico, finisce quasi sempre per riempire di rumore ogni tentativo di approfondimento dei temi, ridotti – insegnamenti e parabole comprese – a un moto di adesione coatta o alla colpevole semplificazione di chi li adatta a una misura propria e solo privata.
Allora, prima che un migrante afghano, piazzato a mo’ di manichino ai piedi del palco, racconti in un inglese sconnesso e meccanico la terribile esperienza dei barconi, la lunga carrellata dei volti di lavoranti immigrati in un campo di granturco sembra disegnare proprio in quei volti un certo imbarazzo, che sembra dire “quanto dura questa inquadratura con il tuo smartphone che serve per il tuo spettacolo? Dovremmo tornare a lavorare”.
Sergio Lo Gatto
Teatro Argentina, Roma – fino al 31 gennaio 2016
VANGELO
uno spettacolo di Pippo Delbono
con Gianluca Ballarè, Bobò, Margherita Clemente, Pippo Delbono,
Ilaria Distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Alma Prica,
Pepe Robledo, Grazia Spinella, Nina Violic, Safi Zakria, Mirta Zecevic
e con la partecipazione del film dei rifugiati del Centro di Sccolgienza PIAM di Asti
costumi Antonella Cannarozzi
luci Fabio Sajiz
immagini e film di Pippo Delbono
musiche originali per orchestra e coro polifonico Enzo Avitabile
Produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione e Teatro Nazionale Croato di Zagabria