Hypnagogia saggio/spettacolo dell’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”. Recensione
Una stanza di motel tinteggiata di verde. Asettica, neutra, scarna. Due comodini, un lavandino, uno specchio, tre abat-jour, una sedia, un letto. Sulla sedia un ragazzo in stato catatonico, sul letto una giovane addormentata. Un uomo in tuta da lavoro indossa una maschera da coniglio e le accarezza piano la testa, sotto lo sguardo vuoto di una domestica in divisa e di una donna in tacchi alti, cappotto lungo e senza occhi. Questo il quadro che si presenta all’ingresso del pubblico a una replica di Hypnagogia, ideato e diretto da Giovanni Firpo come saggio di regia dell’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico.
Se anche non avessimo presente il quadro di Füssli, L’Incubo, al quale la posa della ragazza e, più tardi, del ragazzo fanno esplicito riferimento, la logica onirica di questa drammaturgia originale si renderebbe chiara fin dai primi minuti.
Una porta e una finestra sono le uniche vie d’accesso per la comparsa e la scomparsa di queste enigmatiche presenze, fusione mostruosa di eros e thanathos, mentre il ragazzo, vero protagonista, resterà sempre in scena, tormentato da una sorta di sogno lucido senza uscita. L’azione, totalmente priva di parole, procede per quadri scanditi da cambi di luce che, come in un meccanico gioco di magia, materializzano e dissolvono i quattro personaggi, in quello che vorrebbe essere un crescendo e che invece sfugge presto al controllo di una regia troppo impegnata a citare immaginari cinematografici e pittorici e non ancora in grado di comprendere l’importanza di certi equilibri drammaturgici e visivi.
Elemento preponderante, che accompagna il lavoro da capo a fine, è la musica composta dall’estroso Francesco Leineri, già apprezzato in altri esperimenti e qui (all’opera con Free Music Factory) impegnato a tentare di tenere insieme una linea narrativa volutamente frammentaria, isterica, elettrica. Chiari i presupposti fin dalle note di sala, secondo cui questo è il secondo passo nella ricerca di Firpo sulla drammaturgia onirica, come in ogni incubo che si rispetti non avremmo bisogno di alcuna evoluzione dei caratteri, i nessi logici potrebbero serenamente lasciarsi sconfiggere dalle sragioni del subconscio. Invece finisce per vincere l’inseguimento di una trama noir, una traccia appena intessuta intorno all’evidenza di un fatto di sangue, un gioco di simbologie e specchi che, ahinoi, è chiaro fin dalla seconda scena.
Per quanto molto spesso si abbia l’impressione che proprio questo sia l’invito rivolto allo spettatore, più che tentare di indovinare gli omaggi resi da Firpo a pellicole e pagine care a tutto l’immaginario surreale e horror, lasciamo il compito agli spettatori e reputiamo più urgente, in questa sede, rivolgerci direttamente agli autori con qualche osservazione costruttiva.
Seppure lodevole sia la scelta di abbandonare il porto franco di un testo scritto per abbandonarsi a una ricerca di atmosfere e sollecitazioni visive, occorre sempre rispettare la destinazione di tali intuizioni. Quello teatrale si distacca da altri mezzi espressivi per una gigantesca libertà di organizzazione di materiali e può (deve) far affidamento sulla presenza viva dello spettatore, che in nessun caso potrà reagire come fosse posto davanti a uno schermo. Quando si nega agli interpreti l’espressività del volto (le maschere animali si moltiplicheranno nel finale) e della parola, è necessaria una meticolosa cura del corpo e, allo stesso livello di importanza, una padronanza della categoria scenica del ritmo.
Sarebbe sufficiente in questo caso mettersi in ascolto della musica di Leineri, che infatti per dare forma a un tappeto sonoro vitale di per sé sceglie l’efficace via della variazione continua, mescolando la cacofonia con cupe aperture di archi profondi e un’altalena di frequenze che letteralmente schiaffeggia l’orecchio. Il movimento scenico e drammaturgico, pur liberi dai vincoli di causa/effetto, si atrofizza invece su un amalgama di progressioni a ralenty immediatamente ripetitivo e castrante per l’armonia d’insieme. A voler anche lasciar correre la gestione non misurata di indicazioni come lo sguardo inebetito e la risata sguaiata fuori contesto (il cui potenziale straniante è neutralizzato da un’eccessiva reiterazione), in uno spazio pur ben organizzato ma angusto come quello del Teatro Studio Eleonora Duse gesti ampi e paludate manipolazioni d’oggetti finiscono per risultare ridondanti e prevedibili.
Ricreare su un palco i movimenti di un subconscio in piena ribellione non è impossibile, in fondo è ciò che molti drammaturghi di ieri e di oggi cercano di fare declinando la componente irrazionale in dialoghi e pause articolati in contrappunto. Nell’aprirsi a una via non verbale il teatro può mettere a disposizione molto più che giochi di prestigio con controluce, ombre, tagli ed effetti speciali su specchi diafani, permette alla tensione di ricostruirsi in frammenti di azioni ritmiche che, per associazioni e contrasti, vivono dell’inesauribile espressività dei corpi, in grado di evidenziare simbologie spinte oltre i binomi rossetto/sangue o abito bianco/purezza.
L’apprezzabile nettezza ricercata da Firpo, che speriamo non smetta di crescere, richiede dunque più umiltà nell’utilizzo degli elementi scenici, per far sì che i segni scelti siano liberi di interagire tra loro nella costruzione di una realtà. Una realtà che su un palco sarà sempre – per definizione – una realtà altra. Con o senza coup de théâtre.
Sergio Lo Gatto
HYPNAGOGIA
Saggio di diploma dell’allievo regista dell’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” Giovanni Firpo
Colonna sonora originale Francesco Leineri + Free Music Factory
Con Vittoria Faro, Giovanni Firpo, Antonio Orlando, Carola Ripani, Giulia Trippetta
Assistente alla regia Luigi Biava