Teatro in video 27° appuntamento. Massimo Troisi sul palcoscenico del Teatro San Carluccio di Napoli in occasione del suo decimo anniversario.
Io sono nata tre mesi prima che la mia squadra vincesse un glorioso scudetto, alfiere Diego Armando Maradona. In quell’anno seduto su un divano fiorato con indosso una camicia bianca sbottonata per metà un uomo bruno, con i capelli tirati indietro consigliava di uscire a festeggiare senza dimenticare acqua e gas aperti. Il mio primo incontro con lui credo sia stato lì. Non potevo immaginare quanto un giorno avrei riconosciuto quel sorriso sornione, mai esploso nella magrezza del volto, quella ironia compassata, quella timidezza come immediatezza concreta, quella normalità viva e scappata, scippata al ricordo, la pigrizia, la tenerezza mai scontata, mai melensa, più ragionata del previsto, irresistibile nella sua discrezione governata; men che meno potevo capire allora quanto questo mi sarebbe tornato familiare, quanto con orgoglio nostalgico e una buona dose di malinconia me lo sarei cercato, scavato negli occhi uguali e diversi non esclusivamente per ragioni di mestiere o di tribuna.
Massimo Troisi se lo ricordano tutti perché “ricominciava da tre”, “il caffè – di Lodovico Gasparini con Lello Arena – lo rendeva nervoso”, “si scusava per il ritardo”, perché Quando con Pino Daniele “pensava fosse amore, invece era un calesse” e allora, visto che “le vie del Signore erano finite”, “non gli restava che piangere” insieme a Roberto Benigni e se ne correva da Ettore Scola allo Splendor a chiedergli “che ora era” prima di decidere di salutare su una bicicletta, perché il suo cuore era troppo e lui se ne restava a fare “Il postino”. Questa mia potrebbe sembrare appropriazione indebita anche ai molti “cultori” degli sketch del trio (Troisi, Arena e Enzo De Caro) portato alla ribalta della RAI con Non Stop e Luna Park sul finire dei Settanta. Dei molti però non so quanti sappiano che prima c’era la passione per Pasolini e la poesia, ci sono state le recite al teatro parrocchiale della Chiesa di Sant’Anna a San Giorgio a Cremano, i testi di Antonio Petito, Raffaele Viviani e di Eduardo De Filippo, i dieci anni del Centro Teatro Spazio, il gruppo Rh-Negativo e poi I Saraceni ribattezzati La Smorfia dietro le quinte del Teatro San Carluccio. A ben guardare allora il dolo non sussiste: la mia è appropriazione senza indebito.
Non credo servano qui le analisi sull’uso della lingua, «sulla napoletanità moderna e anticanonica», le sinossi, le biografie, a maggior ragione adesso che chi scrive ha lasciato il distacco a favore della soggettività. La prima canzone che ho imparato per intero si chiama Reginella, tra il punk e l’indie sono cresciuta comunque convinta che A me me piace ‘o blues e di nascosto più di qualcuno un paio di volte mi avrà vista a un concerto di James Senese; del teatro mi ha innamorato in principio un tale Lucariello, poi ho incontrato Il Principe Costante con in mano i volumi del Mahābhārata, a quel punto mi ha tagliato la strada La Gatta Cenerentola e sono arrivata a chiedermi se non fosse un’Opera Pezzentella. La verità è che sul divano fiorato ci continuo a tornare. Anche perché, semplicemente, prima o poi spero di vincere di nuovo lo scudetto.
Marianna Masselli
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