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Il Grand Guignol e la morale borghese

Grand Guignol all’italiana: al Teatro Eliseo di Roma debutta l’inedito testo di Vittorio Franceschi con Lunetta Savino e la regia di Alessandro D’Alatri

 

foto Foto di Linda Pezzano
foto Foto di Linda Pezzano

Si apre il sipario e ci troviamo di fronte a un interno borghese: una casa coloniale spaziosa, un grande tavolo al centro, poltrone d’antiquariato, una porta sul fondo, una grande vetrata dietro la quale l’ombra stilizzata di un cane apparirà ogni qual volta lo si sentirà abbaiare. Colori azzurri e rosa bagnano il palco. Siamo in un’era imprecisata, moderna, una donna stretta in gonna e camicetta chiama la sua colf, fuori piove ma deve recarsi dall’amante, tuttavia prima deve crearsi un alibi con la donna di servizio: non può utilizzare la visita dal dentista perché «i denti sono solo trentadue» e allora si inventa un’assemblea condominiale.

Alla prima di Grand guignol all’italiana al Teatro Eliseo, pubblico di abbonati, attori (colleghi e amici dei protagonisti) e un gruppo di dipendenti di un’azienda la cui organizzatrice dice «siamo un’azienda francese, siamo venuti a teatro per farci forza», tutti si aspettano la commedia e così è per tre quarti. Solo che, come analizza Marcantonio Lucidi in questo articolo spietato, è una commedia che non decolla, che fa sorridere di tanto in tanto e che cerca di recuperare nel finale grandguignolesco con cui arriva una ventata di morte sul palco di Via Nazionale. Ora il problema forse non è neanche l’incompleta adesione dello spettacolo allo stile del Grand Guignol ottocentesco, nessuno si aspetta una riproposizione fedele dopo più di un secolo. Alla regia di Alessandro D’Alatri probabilmente è mancato il coraggio di osare amplificando i tratti nonsense e kitsch della pièce scritta quindici anni fa da Vittorio Franceschi. Torniamo infatti nell’interno borghese nel quale si muove la drammaturgia. Il modello è quello della favola di formazione nel quale l’ingranaggio più piccolo e apparentemente insignificante della società, la colf Esterina interpretata da una Lunetta Savino sempre in parte, è l’unico in grado di svelarne l’ipocrisia. Il problema (o tratto saliente, dipende l’uso che se ne fa) è che questo svelamento arriva nel finale ribaltando repentinamente i tratti comici in una tragedia quasi da cronaca nera.

foto Foto di Linda Pezzano
foto Foto di Linda Pezzano

In realtà il classico meccanismo da farsa borghese mostra piccoli indizi di un prossimo mutamento già prima del macabro finale. Da un lato la servetta manifesta un triste sentimento definendosi “magonata”, dall’altro la storia di corna tra la padrona di casa e un dentista che mai appare in scena non modifica gravemente la trama, perché interviene un altro elemento scatenante: in televisione annunciano un concorso per riscrivere il testo dell’inno nazionale sulla musica di Va’ pensiero (cenno a una probabile presa di potere da parte delle camicie verdi?) e in palio un montepremi da capogiro; ecco il pretesto per tenere tutti i personaggi in scena: oltre a Esterina e ai due padroni (abili e divertenti Carmen Giardina e Umberto Bortolani) di casa parteciperanno all’ideazione dell’improbabile inno un giovane postino di cui Esterina è segretamente innamorata (recitato con troppa prevedibilità da Sebastian Gimelli Morosini) e un salumiere (efficace Andrea lupo) – una macchietta romagnola, oltre che un concentrato di egoismo, ignoranza e avidità.

Si trovano uniti attorno a quel tavolo solo per coincidenze e venali propositi fin quando il giovane postino ingenuamente rivelerà la propria diversità e dovrà scontrarsi con la ferocia della società perbenista e bigotta incarnata proprio dal commerciante e dalla coppia di coniugi. A Esterina non rimane che vendicare il sangue del giovane in nome della libertà e dell’anelito di una società più giusta. Il deragliamento prende quasi alla sprovvista lo spettatore e nonostante l’efficace straniamento dato dalla comparsa della vendicativa colf in un costume da Batman (lo usava il padrone di casa a Carnevale) il nonsense non decolla del tutto, lo spettacolo rimane con i piedi per terra anche perché ora la tematica sociale ha preso il sopravvento, ma è manipolata in modo schematico e stereotipato, mentre il dibattito nella società reale ha già preso altre strade. Così al pubblico non rimane che andarsene con mezze risate ghiacciate sulle labbra e un cenno di riflessione che non si muove oltre la superficie.

Andrea Pocosgnich

visto al Teatro Eliseo di Roma, novembre 2015
in scena fino al 29 novembre

GRAND GUIGNOL ALL’ITALIANA
di VITTORIO FRANCESCHI
regia ALESSANDRO D’ALATRI
con LUNETTA SAVINO
e con (in ordine alfabetico) UMBERTO BORTOLANI, CARMEN GIARDINA, SEBASTIAN GIMELLI MOROSINI, ANDREA LUPO
e con la voce di PAOLO BONOLIS
scene MATTEO SOLTANTO
costumi GIUSEPPINA MAURIZI
musiche originali RICCARDO EBERSPACHER
disegno luci PIETRO SPERDUTI
aiuto regia LORENZO D’AMICO
illustrazioni MARTA CIAMBOTTI
foto di scena PAOLO PORTO

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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