Romeo Castellucci si confronta con lieder schubertiani mettendo in scena Schwanengesang D74. Recensione
C’è un gesto, un gesto misurato e insieme naturale. Lo fa il soprano dopo qualche minuto di canto, lungo il collage di undici lieder schubertiani con cui Romeo Castellucci compone il suo Schwanengesang D744, Canto del Cigno. Il pianoforte di Alain Franco, nel mezzo della platea, ha già iniziato a suonare; Kerstin Avemo, biondissima e minuta, raccoglie le note raggiunte dalla sua voce e le passa con una mano tra i capelli, o così sembra fare mentre muta in un nuovo stadio dell’esposizione; è il primo gesto che lascia la postura e la inabissa nella sequenza dei successivi versi, il primo a tradurre quell’interpretazione di brani in un accesso espressivo, il primo in cui intravedere uno sviluppo. È quello il momento in cui, chi si attende di annotare erudizioni da melomani, si accorge di essere capitato di fronte al teatro.
E il teatro, in questo caso, è il Metastasio di Prato che ha aperto con l’artista cesenate la nuova stagione e battezzato così l’avvento del nuovo direttore, Franco D’Ippolito.
Questa donna è corpo e parte di esso, come un’eredità romantica raccoglie verso dopo verso, nota dopo nota, i connotati della condizione umana, la riferisce nella semplice azione, la preserva per un ascolto ch’è insieme esclusivo e corale. È in quel corpo che i lieder si sciolgono, la sua figura dialoga con essi e con gli elementi esteriori, con le luci cui dedica ora presenza ora assenza, con le ombre che l’attraggono verso il fondo, della scena e di una vita. Lei arretra e confonde il volto nell’oscurità, lasciando in luce il busto a risuonare come cassa armonica, è di fronte e ferma la musica con la mano, si gira di schiena e accetta che la musica la raggiunga: la sua presenza non è negoziabile, non si elude e non si elide. Soltanto quando cede al fondo dell’oscurità e la luce ancora per poco resta a illuminare l’assenza, il canto si assottiglia e si fa piangente, un canto madre poggia la testa a premere il cuore di un buio figlio, solo allora la luce può seguirla e rendere il lascito figurale a quel suono sommesso, disegnando sopra la sua testa china i lineamenti di una croce. Un corpo abbandonato, la donna in ginocchio. Una preghiera di presenza quel «separarsi e lasciare chi si ama», verso un corpo che si agogna più vivo ancora dopo morto.
Ma è possibile ancora, il Cristo, nella società contemporanea? La domanda di Castellucci, che risuona in un’eco perversa lungo tutte le sue ultime produzioni come un rovello, un dubbio, un’ossessione, torna qui in forma di conflitto, pone la donna in uno specchio d’oscurità con l’intimo afflato del nostro sentimento. L’esperienza sacrificale, esemplare, pone ancora una forma morale di giudizio per la comunità umana? Questa, questa è la domanda. L’opera di Castellucci non se ne libera se non in una forma d’arte. Anch’essa dunque, non per caso, esemplare.
Ma l’arte, sulla tela, non è teatro. Una donna si inginocchia a pochi passi da lei, con le spalle alla platea, ripete le parole cadenzate del canto in una partitura sincopata di movimenti, come volesse produrre un codice dell’addio. Ma la domanda, sulla tela, non è che un autografo. E allora la donna si volta, guarda in faccia ognuno degli spettatori, correi dell’autore, “ipocriti” come nei versi baudelairiani (“ipocrita lettore, mio pari, mio fratello!”, Al lettore) e chiede, pone una domanda urlata, l’unica possibile: «Cosa volete? Andate a farvi fottere con la vostra voglia di guardare!». Così trascina con sé il tappeto dove ha stipato un dolore compresso, dove l’altra aveva rimesso il proprio peccato originale, assorbe il cortocircuito elettrico, sonoro e visivo, di Scott Gibbons, fa scorrere lacrime fredde sul volto caldo e ci grida di andarcene come per difendere il suo spazio, i confini di un dolore privato. Solo allora, sul viso, la rianima una lacerante risposta: siamo, noi, non la muta parete che non accoglie la preghiera, ma il corpo morente cui essa si rivolge. E allora chiede scusa, la donna, perché non è che un’attrice (Valérie Dréville). Cioè proprio chi ha missione di farsi carico di un dolore morale collettivo e ridurlo al privato. Ora un’attrice, fuori dalla tela, incarna e conserva, il dolore di una donna.
Simone Nebbia
visto a Novembre 2015, Teatro Metastasio, Prato
SCHWANENGESANG D744
concezione e regia ROMEO CASTELLUCCI
musiche Franz Schubert
interferenze Scott Gibbons
collaborazione artistica Silvia Costa
drammaturgia Christian Longchamp
realizzazione dei costumi Laura Dondoli e Sofia Vannini
con Valérie Dréville, Kerstin Avemo (soprano) e Alain Franco (pianista)
produzione Socìetas Raffaello Sanzio
coproduzione Festival d’Avignon, La Monnaie/De Munt (Bruxelles)
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