Andrea Cosentino e Punta Corsara tra i protagonisti de I Teatri del Sacro 2015. Il festival è ormai un fertile incubatore di importanti esperienze sceniche. Recensioni
È passato il tempo in cui i professionisti del settore guardavano a Lucca con una certa diffidenza, si pensava al festival prodotto con i soldi brutti, sporchi e cattivi della Chiesa, non è così da un po’. Ormai la cittadina non è più zona teatrale periferica, ma uno dei centri propulsivi e va a impreziosire un panorama festivaliero toscano già ricchissimo. L’organizzazione dei Teatri del Sacro fa capo alla Federgat (Fondazione Gruppi Attività Teatrali), sono loro (in collaborazione con la Fondazione Comunicazione e Cultura – Servizio Nazionale per il Progetto Culturale della CEI e l’ACEC ) a organizzare ogni due anni la manifestazione e a preparare il bando con cui finanziare i progetti delle compagnie. In questa edizione la scelta di restringere il sostegno al teatro amatoriale ha permesso di concentrarsi maggiormente sul teatro professionale. In molti, tra operatori e giornalisti (oltre a un numerosissimo pubblico locale), sono venuti a Lucca, magari solo per uno o due giorni, anche perché avrebbero trovato i debutti di Punta Corsara, Andrea Cosentino, Roberto Corradino, César Brie, Carullo-Minasi e tanti altri sapendo però che l’innesco, nella maggior parte dei casi, era proveniente dall’esterno, ovvero attraverso la stimolazione sui temi del sacro.
Un segno importante è stato lasciato sicuramente da Lourdes lo spettacolo presentato da Luca Ricci e Andrea Cosentino, coppia inedita formata dal regista della compagnia CapoTrave e dall’autore e attore già interprete di una carrellata portentosa di personaggi e storie che hanno saputo negli anni rompere gli argini del teatro di narrazione per metterlo in crisi e reinventarlo in continuazione (articoli e recensioni). Ricci per l’occasione ha rispolverato un libro che teneva nel cassetto da diverso tempo, il romanzo omonimo di Rosa Matteucci pubblicato nel 1998 per Adelphi. La storia, autobiografica, è un viaggio in una delle capitali della fede più conosciute che si fa grottesco e dissacrante, con un finale spiazzante e rivelatore.
Sul palchetto alzato nella Chiesa di San Giovanni, Cosentino si presenta in mutande, alla sua sinistra la presenza musicale di Danila Massimi, scelta stilistica di pregio, non semplice accompagnamento ma relazione dialogante con la drammaturgia e i ritmi recitativi dell’attore. Con gli abiti da dama di carità Cosentino veste anche la prima persona, ma come sempre è un abito che prende a prestito tenendolo alla giusta distanza. Bastano pochi minuti per accorgersi che l’adattamento del romanzo è cucito attorno all’espressività del comico romano in modo rigoroso, potrebbe quasi essere un suo testo per come vengono schizzati i protagonisti della storia i quali, come sempre accade con Cosentino, prendono le sembianze di caricature disegnate da uno sguardo cinico, ma gentile al contempo.
Maria, dopo la morte del padre, parte da Orvieto per «chiedere formale spiegazione e magari soddisfazione di tanta sofferenza al Padreterno»; è una giovane donna che si trova a mettere in dubbio le proprie certezze, a lottare dentro di sé con gli stereotipi e la propria vocazione. Dopo un viaggio intero passato ad accudire vecchie signore insopportabili alla ricerca di un miracolo e aver scambiato gli sguardi di un giovane volontario sordomuto per caldi segnali si rende conto di non essere tagliata per quel lavoro. Credeva di trovare la solidarietà mitizzata dai racconti, si immaginava a sollevare gli animi degli storpi e invece si ritrova ad aiutare antipatiche vecchine incapaci di andare al bagno da sole. Ma quasi a sua insaputa ha intrapreso un viaggio, che pian piano, attraverso piccoli indizi, svelerà una reale necessità di fede e di confronto con il divino. C’è spesso in questo spettacolo qualcosa di prodigioso, quasi impossibile da spiegare, ma che arriva subito sulla pelle dello spettatore e risiede proprio in certi imprevedibili scivolamenti, piccole eclissi, che segnano il passaggio dai momenti comici a quelli toccanti.
Alcuni spettacoli poi capita di vederli in premi o concorsi, con quei venti minuti con cui si giocano una profezia sul proprio futuro produttivo, ma poi ci dimentichiamo di loro, li lasciamo in un angolo della memoria; è capitato con l’ultima produzione di Punta Corsara, Io, mia moglie e il miracolo, di cui apprezzammo uno spunto qualche anno fa nella rassegna Dominio Pubblico Officine. A Lucca il gruppo napoletano si è presentato con lo spettacolo completo e con la voglia di dimostrare una grande vitalità interna. Una compagnia che, dal suo esordio nel 2007 come frutto del progetto condotto a Scampia dalla Fondazione Campania dei Festival, ha poi avuto sotto la guida di Emanule Valenti importanti successi e ha dimostrato come si possa rinnovare la tradizione mescolandola con il segno contemporaneo e incrociandola con altri classici, basti pensare all’ultimo Hamlet Travestie. Ma qui Punta Corsara spiazza tutti: porta in scena un testo originale scritto dal ventisettenne Gianni Vastarella (già protagonista della riscrittura shakespeariana) al quale affida anche la regia. E quello con cui il pubblico deve confrontarsi è qualcosa di felicemente azzardato, una sorta di noir sostenuto da una macchina comica che lavora su paradigmi diversi da quelli a cui la compagnia ci aveva abituato. Di Napoli rimane solo la cadenza, leggera ma indispensabile, per il resto potrebbe essere ambientato in qualsiasi metropoli.
Tra paradossi, omaggi al cinema americano (soprattutto quello di David Lynch), battute che ritornano più volte, fin quasi allo sfinimento, con il sapore di certe sentenze demenziali, si snoda un tracciato drammaturgico che ruota attorno al caso assurdo e disturbante di una bambina scomparsa, ma che in realtà – così raccontano i genitori – partecipa a una sperimentazione didattica che la costringe a scuola, in un tempo prolungato infinito. Inoltre in città da un po’ di tempo si sente parlare di qualcuno che fa i miracoli, un uomo capace di riportare in vita le persone. Ma le discussioni lasciano cadere la razionalità nel vuoto, in quello spazio che divide i personaggi e che impedisce loro di toccarsi (ineccepibile la prova degli attori, tutti). La comicità infatti nasconde un disagio familiare da tener nascosto oltre qualsiasi conseguenza, perfino oltre la morte violenta e il potere miracoloso dell’uomo ha l’effetto opposto a quello che dovrebbe, non porta alla salvazione, ma pone le basi per la prosecuzione della menzogna.
La cadenza biennale del festival permette di incubare le proposte e nei migliori dei casi di nutrire urgenza e necessità creativa. Questo è stato anche l’anno del teatro senza il teatro: con il Teatro del Giglio in ristrutturazione tutto ruota attorno al Real Collegio dove l’organizzazione ha saputo mettere in piedi due funzionali sale, negli spazi maestosi della Chiesa di San Giovanni e nella strettoia del San Girolamo. Ci si è trovati così, programma alla mano, ad attraversare la città come tanti pellegrini in cerca di epifanie.
Andrea Pocosgnich
Twitter @AndreaPox
LOURDES
libero adattamento dall’omonimo libro di
Rosa Matteucci
adattamento e regia
Luca Ricci
collaborazione alla scrittura scenica e azione
Andrea Cosentino
musiche originali eseguite dal vivo da
Danila Massimi
produzione
Pierfrancesco Pisani / Kilowatt Festival
spettacolo vincitore de
I Teatri del Sacro 2015
IO, MIA MOGLIE E IL MIRACOLO
drammaturgia e regia
Gianni Vastarella
con
Giuseppina Cervizzi, Christian Giroso, Vincenzo Nemolato, Valeria Pollice, Emanuele Valenti, Gianni Vastarella
disegno luci
Giuseppe Di Lorenzo
costumi
Daniela Salernitano
immagine di locandina
Alfonso Cannavacciuolo
scene
Marco Di Napoli
collaborazione artistica
Marina Dammacco
produzione
369gradi con il sostegno di NUOVO IMAIE
con la collaborazione
Compagnia Scenica Frammenti/ Teatro di Lari