Abbiamo visitato il festival Augenblick mal! a Berlino. Una riflessione sull’uso dei corpi dei bambini in scena
Lo scorso anno avevamo trascorso una settimana all’Aprilfestival, istituzione del teatro per ragazzi e bambini danese, ed era stata un’esperienza gioiosa e incredibilmente inclusiva, in cui una programmazione fiume scorreva tra isole di incontro, confronto, dibattito e critica, alla presenza di operatori di tutto il mondo. E soprattutto di un folto e dinamico pubblico giovane e giovanissimo. Tali le opportunità, quando un evento entra davvero nel patrimonio genetico di una comunità, di certo facilitate da un luogo ospitante raccolto e intimo – diverso ogni anno, Holstebro nel 2014. Quest’anno abbiamo avuto modo di seguire per la prima volta un altro festival di caratura internazionale, dedicato allo stesso target ormai da quindici anni e dodici edizioni, una sorta di roadmap di questo genere di spettacolo dall’unificazione dei due stati tedeschi in poi. La sede, in questo caso, fa la differenza: Berlino – come del resto gran parte della Germania – è oggi una città in continua crescita, con un amore endemico per la cultura che porta a un’attenzione e a un sostegno pubblico del tutto inimmaginabili in Italia. La disseminazione della programmazione in diversi luoghi chiave della città (Theater an der Parkaue, HFS “ERNST BUSCH”, Grips Hansaplatz, Podewil, Deutsche Oper Berlin a Tischerlei, Sophiensaele e Theater RambaZamba) dimostra da un lato un forte radicamento sul territorio, dall’altro mette potenzialmente in crisi un’agile mobilità degli spettatori, pur tenendo conto della sensazionale attraversabilità della capitale tedesca.
Nella settimana di festival è stato ospitato anche l’incontro annuale dell’Assitej, l’associazione internazionale dei teatri per il giovane pubblico, rappresentata ormai in tutto il mondo, che ha preso la forma di una serie di convegni incentrati su temi specifici, dalle estetiche alle poetiche, dalla distribuzione alle prospettive di ricerca. Il tutto gestito con un approccio – almeno in apparenza – fortemente inclusivo, attraverso tavole rotonde compresse in sessioni (forse troppo) brevi, introdotte da interventi di esperti, studiosi e animatori della scena del teatro ragazzi mondiale. Offrendo la possibilità di entrare in contatto con pratiche a volte estremamente diverse, la serie di incontri dell’Assitej ha segnato il passo di un festival di cui è stata evidente la forte partecipazione da parte delle istituzioni e la caratteristica di vetrina per le produzioni locali, non senza qualche calcolato sguardo al panorama europeo. Eppure le platee che ci è capitato di visitare erano di rado occupate anche da un pubblico che rispondesse ai range di età indicati nei fogli di sala.
Analizzando la proposta artistica, una breve riflessione potrebbe riunire due lavori tra loro diversi, ma in qualche modo significativi per una ricognizione ragionata: Rauw, del collettivo belga kabinet k e Ein Bein Hier und Ein Bein Dort (Una gamba qui e una gamba lì), una coreografia di Anna Konjetzky in coproduzione con il Think Big! Festival di Monaco di Baviera. Questi due spettacoli hanno declinato una pratica che sempre più spesso vediamo usare nel teatro ragazzi emergente in Italia, quella di mettere in scena direttamente dei bambini. Pensiamo – con le ovvie debite differenze – a Lolita di Babilonia Teatri, all’esperimento Be Legend! di Teatro Sotterraneo, da La casa di Eld de L’Alakran presentato a Short Theatre 9, a La stanza dei giochi della compagnia Scena Madre (vincitore ex aequo di Scenario Infanzia 2014 insieme all’ottimo Fa’afafine – Mi chiamo Alex e sono un dinosauro di Giuliano Scarpinato), con in scena due bambini che “giocano” a fare gli adulti, trasformando in battaglia quel che in origine era diletto.
La direzione presa da Rauw è completamente diversa. In una scena creata ad arte, con il suolo coperto di terra e intorno un grande impiego di effetti speciali visivi e sonori, un manipolo di bambini tra i sette e i quattordici anni se la vede con un danzatore adulto e con una performer nella sua terza età: nel silenzio di un raffinato teatro fisico la rappresentazione delle generazioni assume un gusto antropologico, quasi darwiniano, il gruppo dei giovanissimi è un esercito a metà tra i Lost Boys del Peter e Wendy di J.M. Barrie e il popolo del distopico romanzo di William Golding Il signore delle mosche. La tensione è tutta costruita su un susseguirsi di prove di sopravvivenza. Temi e struttura simili tornano nel più giocoso Ein Bein, dove gli equilibri sono rovesciati: la coreografia di Konjetzky si articola sulla presenza di un bambino e di un gruppo di cinque danzatori professionisti. In questa sorta di videogioco live, al piccolo è accordato il potere di muovere a piacimento i corpi degli adulti, componendo figure e tableaux vivants, costruendo corridoi e passaggi segreti fatti di gambe e braccia, finendo per uscire di scena dalla platea, camminando tra gli spettatori poggiando i piedi solo sui corpi dei danzatori. In entrambi, dunque, la presenza dei bambini ha una funzione eminentemente drammaturgica. Eppure, almeno per il nostro sguardo, è ancora in agguato la tendenza a guardare alle prodezze di chi normalmente non si vede in scena come un’agile forma di spettacolarizzazione. Questo forse perché la maggior parte dei lavori che vediamo qui non riesce a rafforzare l’impiego di bambini con una necessaria urgenza di senso, rischiando spesso di evidenziarne l’alterità verso un’adesione che indebolisce l’impatto poetico e l’organicità dell’intero esperimento.
Servano invece da esempio progetti come quello di Boris Charmatz (Enfants) o di Virgilio Sieni, Cerbiatti del nostro futuro, forte di una valenza innanzitutto formativa verso l’arte coreutica professionale. Ed ecco che una coreografia come il suo Indigene non pone neppure alla lontana il problema di un’adesione immediata, perché ciò che guardiamo sono solo corpi giovani che interpretano un pezzo disegnato per loro. Il suo Vangelo Secondo Matteo, più vicino invece all’intenso percorso di pulizia e sensibilizzazione del gesto, conteneva, tra i corpi non formati alla danza, anche alcuni bambini: nella Pietà la potenza visiva era nell’interazione madre-figlio, nella somiglianza dei corpi e nella loro tangibile emozione. Trovando sponda in una estrema specializzazione o al contrario nell’emersione di un’essenza pre-esistente rispetto alla tecnica, lavori simili innestano la presenza dei bambini in un profondo solco di ricerca che finalmente scansa di lato i ragionamenti di settore e di target troppo attaccati oggi al teatro ragazzi, liberando una linea primigenia nella definizione dei caratteri del gesto e del movimento.
Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982
RAUW
produzione kabinet k, Ghent (BE)
coreografia Joke Laureyns, Kwint Manshoven
musica dal vivo Thomas Devos (Tommigun)
scene Kris Van Oudenhove, Kwint Manshoven
luci Kris Van Oudenhove
drammaturgia Mieke Versyp
con Yolan Bosteels, Suza De Gryse, Judith Ginvert, Kwint Manshoven, Kristina Neirynck, Aagje Van Wesemael, Louisa Vermeire, Anna Vrij, Renée Wagemans
età 8-12
||:EIN BEIN HIER UND EIN BEIN DORT:||
scene e coreografia Anna Konjetzky
musica Eric Thielemans
video Canan Yilmaz
luci Barbara Westernach
con Viviana Defazio, Samuel Geller, Tim Gerhards, Sahra Huby, Quindell Orton, Damiaan Veens
età 8+