HomeArticoliMacelleria Ettore e Čechov. Il cantiere che non finisce mai

Macelleria Ettore e Čechov. Il cantiere che non finisce mai

Senza Trama e senza finale di Macelleria Ettore, ispirato ai racconti di Anton Čechov e visti all’interno di Primavera Argot. Recensione

 

Foto di Ufficio Stampa
Foto di Ufficio Stampa

«Del resto, una lepre, se la picchi, finirà per mangiarsi delle scatole di fiammiferi». Questa è una delle prime affermazioni che potreste udire nell’osservare Senza trama e senza finale, vero e proprio cantiere di esplorazione del mondo di Anton Čechov. Messo a punto da Macelleria Ettore in vista di una progettualità triennale, #CantiereCechov è un lavoro per tappe, un «avvicinamento graduale», una palestra nel quale mettere a punto, confrontarsi con sentimenti, temi e approcci i quali confluiranno nel 2017 non nei racconti da cui parte questo lavoro presentato alla rassegna Primavera Argot, ma in una delle pietre miliari del teatro novecentesco, Il giardino dei Ciliegi.

Il lavoro, che ha giovato di diverse residenze organizzate attorno a singole tematiche – études accompagnati ora dall’occhio di Fausto Malcovati, ora da Renzo Francabandera ora da Massimo Paganelli –, troverà definizione ultima al prossimo Festival di Castiglioncello, ma già da ora, tolta qualche lentezza da rodaggio, è possibile considerarla un’opera diremmo, come per Rodin, completa nel suo esser non conclusa. Senza trama, ovvero costruita per quadri all’interno dei quali ritroviamo assonanze ritmiche o contrappunti emotivi; senza finale, nell’eterno tedio che spingeva a ipotizzare soluzioni estreme come la frase citata in apertura. Ecco, se dovessimo elencare, uno dei collanti più forti è proprio quello della noia, ciò che attanaglia fin da subito i movimenti dei personaggi: una micro partitura precisa detta la legge di un afoso pomeriggio, canzoncine cantate a mezza voce su un tappeto d’erba, dita che allargano colletti, schiene vagamente scivolate dalla spalliera del divano. I quattro attori riescono bene a renderne l’atmosfera, trasformando man mano questa scena che è d’interno ed esterno al contempo (c’è un divano, un tappeto che ricorda un prato con tanto di margheritine, un lampione e un ciocco di legno, a cura come gli eleganti costumi di Maria Paola Di Francesco), in un movimento del pensiero, intimo e assieme plateale.

Foto di Ufficio Stampa
Foto di Ufficio Stampa

Seguiremo frammenti di vita ai quali corrisponderanno insignificanti (e per questo più che mai umane) vite, sottili scintille di dispiacere o felicità apparenti che culminano tutte ma senza concludersi, poiché – proprio come il titolo estrapolato da un’indicazione dello stesso drammaturgo – si prende qualcosa dalla vita di ogni giorno, senza trama e senza finale. Messe in scena sono quasi sempre le sfaccettature del rapporto a due, nel quale sembra sempre trovarsi in uno slittamento; tanto in Cechov quanto nel lavoro diretto da Carmen Giordano non si riesce quasi mai a trovare una corrispondenza di intenti. Ai “sì” richiesti, strappati dalle dita esperte di una donna, qualora dovesse far seguito un’accettazione della situazione da parte di un timido malcapitato, la prima si ritroverebbe a ritrattare, tirarsi indietro. L’invito è ad «abbandonare ogni attesa di felicità» mentre l’attitudine sembra essere sempre quella opposta. In questo, nonostante la distanza con alcune situazioni, li ritroviamo  vicini ad un modo del sentire contemporaneo; non c’è una volontà di andare oltre i testi (nonostante l’adattamento e la presenza di alcuni brani originali), ma di indagarli a fondo attraverso una drammaturgia attoriale nella quale spicca Maura Pettorruso assieme a Claudia De Candia, Stefano Pietro Detassis e Angelo Romagnoli. Come le note di un piano che dicono più delle parole (centellinato e raffinato l’intervento musicale di Renzo Rubino), i loro sono corpi che si lasciano attraversare dalle situazioni, non temono il contatto e fanno giusta parsimonia di silenzi; dalla naturalezza (si badi, non naturalismo) si procede verso un – ultimo? – quadro grottesco, nel quale l’ubriacatura in una casa di astemi è gioco scenico, che, se travalicato, richiama un’invettiva verso tutti, pubblico compreso. È ora di andare via, «voi non capite niente, sciagurati».

Viviana Raciti
Twitter @viviana_raciti

Visto al Teatro Argot, all’interno della rassegna Primavera Argot – maggio 2015

SENZA TRAMA E SENZA FINALE

con Claudia De Candia, Stefano Pietro Detassis, Maura Pettorruso e Angelo Romagnoli
disegno luci Alice Colla
scena e costumi Maria Paola Di Francesco
musiche originali Renzo Rubino
organizzazione Daniele Filosi
testo e regia Carmen Giordano
in coproduzione con Centro Servizi Culturali Santa Chiara Trento
con il sostegno di La Corte Ospitale, Rubiera (Re), Teatro Argot Studio,
una produzione TrentoSpettacoli
e Armunia Festival Costa degli Etruschi
L’Arboreto Teatro Dimora, Mondaino (Rn)

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

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