Atlante XLVI – Teatro di Roma. Dalle celebrazioni per Luca Ronconi alla città teatrale
Un antefatto è un fatto cui è toccata una discendenza. Un evento che cioè ha fornito la base perché altri eventi vi succedessero, imponendo stretti legami di relazione, che fossero preordinati o casuali. E allora qui c’è un antefatto: lo scorso lunedì 13 aprile il Teatro di Roma ha ospitato un evento nell’ambito delle celebrazioni Roma per Ronconi dedicate al grande maestro da poco scomparso; l’evento, dal titolo Invenzione e verità. Il teatro di Luca Ronconi, curato da Roberta Carlotto e proprio dal direttore del nuovo Teatro Nazionale Antonio Calbi, si presentava come un grande omaggio di tutti gli attori della storia ronconiana, ciascuno dei quali avrebbe interpretato al leggio un frammento di uno spettacolo del regista in cui fosse stato presente. Tra la platea e il loggione, escludendo tutti quelli che non hanno trovato posto e sono tornati a casa, si contavano quasi 800 persone, accorse a partecipare a una serata d’onore, in assenza dell’onorevole.
Il fatto, dunque, non è di per sé eclatante: è nobile e naturale che un teatro ufficiale dia omaggio a un grande protagonista del teatro che non siamo più stati; non c’è giudizio, per questo, il giudizio inizia a farsi largo quando dal fatto si allarga la percezione alla città intorno, quando cioè quel fatto pone elementi di lettura utili a sviluppare altre riflessioni. Quando, cioè, diventa antefatto.
Quasi mille persone, tra quelle che hanno occupato fino all’ultimo loggione e quelle tornate a casa, per vedere i grandi attori dell’era ronconiana recitare un frammento della loro epopea. Rivivere e far rivivere una presenza concreta attraverso la trasmissione della parola teatrale. Insomma, per dirla con una locuzione altrove fortunata, rappresentazione di rappresentazioni. Eppure, mentre un gran numero di persone affolla quei palchi, le piccole e medie sale teatrali romane sono quasi vuote e faticano a restare aperte, a dare sostegno creativo e operativo alle compagnie che tentano di crescere e farsi spazio nella giungla teatrale nazionale.
Due i termini per un confronto non così netto come possa apparire, due le linee di analisi su cui si vorrebbe aprire confronto, data l’impossibilità di essere esaustivi: cosa cerca lo spettatore teatrale di questo inizio di secolo? Qual è il lavoro dell’istituzione teatrale cittadina per stimolarlo alla partecipazione?
Con ordine. Il primo piano di indagine, tralasciando per una volta l’annoso problema della distanza del grande pubblico e modi per attrarlo, presenta una massa di persone che sceglie di andare a fare esperienza di memoria, sceglie cioè di “andarsi a vedere” riflessa in ciò che è stata, pensando a quando ha visto quell’opera, quell’attore, quando cioè ha compiuto l’esperienza primaria, originale. Contestualmente però, nelle sale dove a vari livelli qualitativi si fa tentativo di mettere in scena il mondo a sé e ad altri contemporaneo, con coraggio e scarsità di mezzi, quello stesso pubblico diminuisce drasticamente di numero, segno evidente che il tentativo ha meno appeal, ma perché? Il teatro che si fa e si proietta in avanti ci chiede uno sforzo complesso, non propone fattezze ma parvenze di noi, ciò che ancora non siamo e forse non saremo mai, è in quella sottile linea di demarcazione che divide l’esperienza dall’esperimento. E forse questo sforzo il nostro mondo se lo sta lasciando alle spalle.
Ma forse non c’è da stupirsi: siamo una società che ha abdicato, non è più ripartita in sottoinsiemi “comunità” che fanno parte di un più esteso “mondo”, ma è riconoscibile in “fette di mercato”. Più la fetta è piccola meno è sostenuta, qualsiasi attività proponga per il proprio minuto gruppo, così da facilmente far passare anche l’idea che sia nei contenuti poco interessante, fuori dal tempo attuale. E, di tempo per l’ascolto e la scelta, non se ne può perdere.
Ma l’altro tema forte, se il primo allarga il campo a un disegno svilito di civiltà, riguarda proprio il sistema teatrale: senza che si faccia notare più di tanto e da ormai troppi anni, il Teatro di Roma non è mai stato in grado di rispondere alla missione fondamentale di tenere una rete di relazione con il territorio artistico, se non sporadicamente con l’apertura di Short Theatre, con il ciclo Wake Up! Bagliori dalla Primavera Araba e con il fruttuoso cantiere di Perdutamente troppo presto abbandonato, forse perché precedente al nuovo direttore. Ciò che accade allo Stabile, ora Nazionale, poco riguarda i piccoli o i medi teatri e viceversa non c’è un monitoraggio continuo, strutturale, per valutare ciò che si muove sotto il livello dei sistemi produttivi. La necessità di una factory che creasse un polo produttivo in città, o che almeno cercasse di integrare le iniziative di produzione creativa di realtà convenzionali come Teatro Argot Studio, Teatro dell’Orologio e altri o non convenzionali come ad esempio Rialto Santambrogio, Valle Occupato, Angelo Mai, torna a farsi pressante pian piano che la distanza tra macro e micro cosmo perde sfumature e si fa netta, visibile, si spera non definitiva. Altrimenti la prossima volta sarà chiaro di chi e di cosa dovremo omaggiare la scomparsa: del teatro a Roma.
Simone Nebbia
Twitter @Simone_Nebbia