Fino al 26 aprile al Teatro India sarà in scena Sweet Home Europa scritto da Davide Carnevali (pubblicato per Cue Press), prodotto dal Teatro di Roma per la regia di Fabrizio Arcuri. Una riflessione con l’autore sull’incontro e scontro tra i popoli che ci riguarda molto da vicino.
Durante i suoi studi a Barcellona ha avuto la possibilità di leggere autori come Martin Crimp, Caryl Churchill, Elfriede Jelinek, tradotti in catalano quando ancora non erano diffuse versioni in italiano. Se parlassimo di materie scientifiche, Davide Carnevali sarebbe uno di quei cervelli in fuga spesso raccontati sui nostri giornali. Invece è uno scrittore e teorico del teatro che dall’Italia se n’è andato già durante gli studi universitari costruendosi in Europa un curriculum e una carriera quasi sconosciuti qui da noi. Eppure ha vinto già due volte il Premio Riccione, ovvero il maggior riconoscimento per la letteratura teatrale italiana. Ha trentaquattro anni e un dottorato in tasca, le sue opere sono state rappresentate in numerosi contesti internazionali e sono tradotte in sei lingue. I suoi natali sono milanesi ma vive e lavora tra Barcellona e Berlino.
Il tuo testo arriva in un momento di crisi e di messa in discussione dei valori europei. Come è nata la scrittura di Sweet Home Europa?
In realtà non è nuovissimo, l’ho scritto tra il 2009 e il 2010. Non si parlava ancora di crisi in questi termini, ma già si capiva che qualcosa non andava, era il periodo dei rifiuti al trattato europeo e mi interessava capire cosa stessimo costruendo come unità sociale e politica prima che economica. Ero a Berlino al festival Theatertreffen, dove avevo vinto un premio con il precedente lavoro, Variazioni sul modello di Kraepelin; il festival come istituzione decise di seguirmi e presentai Sweet Home Europa al Festival Internazionale di Letteratura di Berlino. Già scrivevo con un respiro europeo, perché sapevo che avrei debuttato prima fuori dall’Italia. La Germania continua a essere per me il primo punto di riferimento, appena finisco di scrivere un testo le prime persone a leggerlo sono la mia traduttrice tedesca e quella francese.
In Sweet Home Europa ci sono 3 personaggi: un uomo, un altro uomo e una donna. I due uomini rappresentano dei paesi che si incontrano per creare relazioni e accordi. Dato che tra i due uomini ci sono dei rapporti di forza evidenti dobbiamo pensare a Stati veri e propri?
C’è la volontà di lasciare la questione in sospeso. Non sono personaggi, sono tre persone che interpretano eventualmente molti personaggi…
Potrebbero essere anche più attori?
In teoria sì, io l’ho pensato per un minimo di tre persone, ma nulla vieta di farlo con più attori.
L’idea infatti è quella di rappresentare una storia universale e particolare allo stesso tempo. Nel caso dell’Altro Uomo, ad esempio, all’inizio pensi che sia la stessa persona che si trova in contesti diversi, poi invece capisci che è una questione di generazioni che si susseguono. La Storia tende a ripetersi sostanzialmente in modo identico, epoca dopo epoca. Gli scontri culturali che ci sono adesso ci sono stati anche nel passato: l’Europa è un continente che si popola per migrazioni. Mi interessava molto questo problema.
Però nel testo le problematiche non si concretizzano su un piano di realtà, la questione non è affrontata direttamente, ma suggerita. Cosa ti aspetti che arrivi al pubblico italiano?
Io non scrivo teatro, io scrivo per il teatro. È letteratura drammatica. Lo spettacolo è un’altra cosa. La mia è una sorta di partitura e tendo a lasciarla il più libera possibile dal punto di vista della messinscena e del montaggio, ma cerco di guidarla dal punto di vista del linguaggio attraverso alcune direttive. Mi interessa che arrivi una certa atmosfera, un certo senso di estraneità. Il mio obiettivo è lavorare con lo spettatore e portarlo fuori da una visione egemonica della realtà basata sulla cronologia lineare, sulla relazione causa ed effetto, sulla visione di un mondo perfettamente dominabile dall’uomo. Con questa visione ci perdiamo molte cose della vita, non solo rispetto alla comunicazione. Naturalmente vorrei che il pubblico rifletta divertendosi.
Infatti l’ironia è determinante nella sua scrittura, arriva spiazzando il lettore. Come hai lavorato su questa peculiarità?
Molte cose rischiano di farsi didascaliche e pedanti se non le metti in bocca a un branzino che parla [è una scena dello spettacolo, ndr.]. Ho lavorato sui testi sacri e la tradizione miracolistica, dunque dietro a certi momenti che possono apparire demenziali c’è un significato simbolico, un codice preciso. Cerco di scrivere costruendo diversi strati e livelli che corrispondano a diversi pubblici.
Un’altra caratteristica è rappresentata dalle storie che i personaggi si raccontano, ognuno è portatore di una tradizione orale. Come si relaziona questo discorso con la Storia dei popoli?
Mi interessa la costruzione della Storia come costruzione della memoria storica, come qualcosa di artificiale. Tendiamo a ricreare il nostro passato a partire dalla sua narrazione, ma il passato non è la memoria, è una sua interpretazione logica. È una questione su cui ho avuto modo di riflettere molto proprio in paesi come la Spagna, la Germania o l’Argentina dove il dibattito è sempre centrale.
Come appare l’Italia vista da fuori con gli occhi di un autore neanche trentacinquenne?
Non è un possibile mercato, non è un paese con un sistema teatrale interessante. Ha delle cose interessanti, il problema è che non sono valorizzate o sono nascoste, non escono o non hanno i mezzi per svilupparsi come invece li avrebbero in altri paesi.
Quali sono i problemi di uno scrittore italiano di teatro che lavora maggiormente all’estero?
Negli altri paesi ad esempio un grande lavoro viene svolto dagli istituti di cultura, per la Germania il Goethe Institut ha un ruolo importante nella diffusione della cultura tedesca: per un autore tedesco è molto più facile farsi tradurre, rappresentare e viaggiare perché l’istituto sovvenziona la partecipazione ai festival. Ecco, io da italiano mi sono scontrato tantissime volte con questo problema, perché con gli istituti italiani di cultura ho sempre avuto difficoltà a trovare finanziamenti. Spesso mi sono trovato nella situazione in cui ero l’autore italiano invitato a un festival e non potevo viaggiare perché l’Istituto Italiano di Cultura non aveva i fondi. Alcune volte sono stato aiutato dal Goethe Institut, grazie alle connessioni del mio agente a Berlino, oppure dagli istituti spagnoli o francesi.
Andrea Pocosgnich
SWEET HOME EUROPA
Una genesi. Un esodo. Generazioni
Dall’11 al 26 aprile 2015 – Teatro india, Roma [clicca qui per la promozione Teatro Pocket: biglietti a 8 euro]
di Davide Carnevali
regia Fabrizio Arcuri
con Matteo Angius, Francesca Mazza, Michele di Mauro
musiche composte e eseguite dal vivo da Davide Arneodo, Luca Bergia (Marlene Kuntz) + Nico Note
ideazione progetto scenico Andrea Simonetti
sculture sceniche esplosive Riccardo Dondana (3tolo) e Enrico Gaido
assistente alla regia Francesca Zerilli
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il Garantista, 9 aprile 2015. Per gentile concessione.