CK Teatro torna su Pasolini. A partire da Affabulazione, una riflessione sul confronto generazionale con Tutti i padri vogliono far morire i loro figli. Recensione
Dopo le glorie degli anni Settanta e un “secolo buio” in cui la sala data in affitto ha messo in crisi la distinzione di una qualità, il Teatro dell’Orologio diretto ora interamente da Fabio Morgan figura a pieno diritto tra le realtà che hanno sposato una vocazione alla militanza, a colpi di programmazione e di attività collaterali. Ma l’Orologio è anche luogo di residenza della compagnia CK Teatro, che Morgan dirige insieme a Leonardo Ferrari Carissimi, latrice di diversi esperimenti rilevanti, uno su tutti un delirante, millenarista e riuscito omaggio a Pier Paolo Pasolini datato 2011, Pasolini Superstar. A partire dallo stesso autore, in particolare dalla tragedia Affabulazione (pubblicata nel 1969 su Nuovi Argomenti), muove invece passi più incerti Tutti i padri vogliono far morire i loro figli, aprendo una tetralogia già annunciata e dichiaratamente incentrata sul tema del confronto tra generazioni. Già in Love era stato compiuto da Colossal Kitsch un primo avvicinamento al linguaggio della tragedia classica, per certi versi non lontano da quello usato da Filippo Gili nei suoi Prima di andar via e Dall’alto di una fredda torre, puntando alla creazione di una forma allegorica che vorrebbe i personaggi come incarnazione di archetipi morali. Se da Pasolini Superstar a Love si osservava un attenuarsi dell’estetica (e dell’etica), appunto, kitsch, in questo nuovo passo, che rispetto al libro di Pasolini rappresenta una sorta di sequel, esso torna in una forma nuova, tuttavia non altrettanto efficace. Nota bene Andrea Porcheddu come Pasolini sia diventato per la generazione dei trentenni un’icona di protesta e di presagio inquietante, non immune alla sorte di molti simboli ideologici fagocitati dalla cultura di massa. E da qui nasce una vera e propria estetica.
Dopo aver abbandonato moglie e figlio per una “vita spericolata” da fotografo errante per set cinematografici e letti extra-coniugali, Carlo ritorna a casa a distanza di vent’anni dicendosi allo stadio terminale di una malattia e in cerca di perdono. Il figlio, venticinquenne studente di filosofia con affascinante compagna che lo vorrebbe più tollerante, si dimostra invece avverso a ogni forma di riconciliazione e anzi, sembra, intento a rovesciare finalmente il bagaglio di rancori riempito lungo due decenni vissuti da “orfano”. L’intero percorso di redenzione, che vede il padre ammettere le colpe della propria assenza e però sottrarsi di proposito alla punizione, si svolge tra le chiare parentesi di un incubo (come nella prima scena dell’opera pasoliniana), ricreato dal testo attraverso un’evoluzione onirica del linguaggio e delle stesse situazioni. Le luci pastose e tenui (di Antonio Scappatura), unite a una scenografia essenziale e decentrata (di Alessandra Muschella) che inquadra interno ed esterno di una villa borghese, incorniciano con coerenza la scelta drammaturgica. Nonostante torni spesso nel testo il richiamo a un padre che «si sente ancora figlio», stona la scelta di un attore nei suoi trent’anni (Mauro Santopietro) per interpretare Carlo, di fronte a un figlio che pare avere la sua stessa età e soprattutto dal momento che l’intero progetto viene accuratamente presentato come una riflessione frontale sulle responsabilità della generazione del Sessantotto. È vero, qualche spruzzata di talco gli imbianca i capelli, ma stavolta il kitsch non chiude il rubinetto del disagio e lascia in testa un piccolo rovello, come se «la frustrazione, l’inquietudine diffusa» di cui parla Porcheddu finisse per perdonare a se stessa certe scelte che invece proprio un grido politico dovrebbe curare nel particolare.
Al termine dello spettacolo ci si trattiene per un incontro con Ferrari Carissimi (che cura la regia), si affronta il tema alla presenza di un pubblico misto, nel quale i più agguerriti sembrano essere i «padri». A fronte di un intento così minuziosamente dichiarato da un punto di vista sia tematico che stilistico – cioè la volontà di inquadrare in una parabola drammaturgica una questione complessa come l’eredità e le colpe di due generazioni – occorre creare un impianto finzionale in grado di mettere in evidenza caratteri che riflettano gli archetipi senza tuttavia soffocarne la valenza didattica (e non didascalica) di stampo epico, brechtiano. All’operazione non è certo richiesta alcuna correttezza morale o aderenza a trend consolatori (dunque lecito resta anche un approccio marcatamente reazionario almeno riguardo agli schemi patriarcali, ammesso da Morgan e tanto criticato da certi spettatori), tanto meno impedito il ricorso a pressioni estetiche come la recitazione affettata e sopra le righe o il vezzo ammiccante di una Blue Velvet di lynchiana memoria nel finale: in fondo, a proposito di Brecht, il messaggio politico era lì spesso mascherato da innocua operetta in musica. Tuttavia questa vena radicale e il suo sbandieramento scopre il fianco a un rischio di fondo, quello della forzatura di una tematica e del suo messaggio su una forma che non riesce a sostenerla.
Il ritratto di un abbandono compiuto e subìto sulla base di un’urgenza così personale come un adulterio o un (pur infantile) desiderio di libertà sembra spostare troppo l’asse in favore di un puro dramma famigliare estremamente privato e dunque difficile da ricondurre a temi più universali, finendo per appiattire la portata retorica dell’intento originario. La messinscena forse troppo ambiziosa, che carica (come in altri lavori precedenti) gli attori di un continuo slittamento verso un’eccessiva esteriorità ai danni dell’abitazione dello spazio e del ricorso – infatti minimo – all’espressività gestuale, avrebbe bisogno di un trattamento drammaturgico più complesso e meno esposto al crinale del dramma d’interni il quale, se preso alla lettera, risulta poco originale e ancor meno convincente. La riflessione sulle responsabilità di una generazione nei confronti di quella passata e di quella che verrà non trova dunque ancora, almeno in questo primo frammento, una potenza dialettica sufficiente a dividere i discorsi, lasciando ancora troppo a margine una presa reale di posizione cui invece gli autori, rifacendosi a un “nume tutelare” così schierato, sembrano invece aspirare.
Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982
Visto al Teatro dell’Orologio, marzo 2015
TUTTI I PADRI VOGLIONO FAR MORIRE I LORO FIGLI
con Mauro Santopietro, Luca Mannocci, Irma Ciaramella, Chiara Mancuso, Anna Favella
Regia Leonardo Ferrari Carissimi
scene e costumi Alessandra Muschella
disegno luci Antonio Scappatura
tecnico luci Martin Emanuel Palma
Produzione Progettogoldstein, Teatro dell’Orologio