Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Socrate a dialogo con Ione, visto da Platone.
In Teatrosofia, rubrica curata dal nostro redattore Enrico Piergiacomi – dottorando di ricerca in filosofia antica all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.
Lo Ione di Platone è pressoché concordemente riconosciuto dagli studiosi come una delle prime opere dell’enorme produzione del filosofo-scrittore. Esso trae il titolo dal nome del rapsodo protagonista del dialogo, che si trova a rendere conto a Socrate della propria asserzione di possedere l’arte di spiegare il significato dei versi di Omero e di ricamare molti «bei pensieri» sul poeta.
La struttura del testo può essere distinta in tre grandi parti. Nella prima, Socrate saggia appunto la fondatezza della dichiarazione di Ione, che in ogni caso premette di riuscire a interpretare e articolare pensieri esclusivamente intorno a Omero, approdando con lui alla conclusione che il rapsodo non fa tutto ciò in virtù di un’arte. Se la possedesse, egli sarebbe in grado di spiegare il significato dei versi di tutti i poeti, non di un unico. Infatti, l’arte consiste per Socrate nella conoscenza specialistica di tutti gli oggetti che la riguardano, quindi un’arte rapsodica dovrebbe conoscere ogni poeta e distinguere quale di loro parli meglio o peggio intorno a specifici temi. La seconda parte del dialogo impegna invece Socrate in due lunghi monologhi, che descrivono il rapsodo come un uomo che interpreta e formula «bei pensieri» su Omero senza esercitare il proprio intelletto, bensì a causa della possessionedi un dio. Nella terza, infine, Ione si mostra restio a dare ragione al suo interlocutore e obietta di saper dire con arte quali versi omerici indichino le parole che devono pronunciare le diverse persone, per esempio quelle che deve pronunciare lo stratega per incitare i soldati a combattere, al punto da legittimarlo ad aggiungere che l’arte rapsodica e l’arte strategica sono la stessa cosa. Socrate smentisce questa obiezione rispondendogli che, in tal caso, il rapsodo dovrebbe saper usare a sua volta le parole giuste per guidare gli eserciti e per condurli alla vittoria. E poiché ciò non avviene, si deve di nuovo abbandonare la tesi secondo cui i rapsodi procedono attraverso un’arte e sostenere che operano in virtù di una possessione divina.
In questa sede è soprattutto interessante concentrare l’attenzione sulla seconda parte del dialogo, dove Socrate qualifica Ione anche come un “attore”. La piccola spia ci aiuta a capire che, secondo il filosofo, anche quest’ultimo recita senz’arte e per possessione divina, che è da Socrate paragonata all’attrazione magnetica. Come infatti la calamita attira un pezzo di ferro, il quale a sua volta – caricato di energia – attira un altro pezzo di ferro, e via dicendo, formando alla fine una lunga catena, così procede anche la divinità. Un dio toglie il senno a un poeta, consentendogli di comporre qualcosa di pietoso o terribile, sulla scia della pietà e del terrore; quando viene recitata, tale composizione priva dell’intelletto l’attore, che riesce così a commuoversi o impaurirsi per quanto dice e a emanare sulla platea questa energia emotiva; infine, la mente degli spettatori è a sua volta portata fuori di sé e, in preda all’entusiasmo, si commuove o si spaventa per quello che sente. Si crea così una lunga catena di uomini e donne che hanno perso la testa, in preda a un trasporto passionale straordinario. E se non sembri una battuta blasfema, si potrebbe persino aggiungere che anche il dio è il primo a piangere o tremare, con la testa andata in frantumi per la pietà e il terrore che ha rilasciato, rannicchiandosi di colpo per terra come un povero scemo!
Si possono nutrire molti ragionevoli dubbi circa la storicità dei contenuti dello Ione, perché Platone potrebbe mettere in bocca a Socrate le sue opinioni sull’origine del processo creativo. L’idea che l’ispirazione poetica provenga da dio e sia una forma di “mania” o di perdita del proprio intelletto, nonché la tesi secondo cui i poeti non hanno vera conoscenza delle cose su cui compongono versi, torneranno del resto rispettivamente nel Fedro e nei libri II, III, X della Repubblica, che sono dialoghi in cui il Socrate letterario non esprime più le posizioni del Socrate storico. Ma almeno sul piano molto generale si può supporre che, nello Ione, Platone esponga ancora le tesi del maestro, che in seguito amplierà e riproporrà in una personale interpretazione.
La prima conferma di questa ipotesi è anzitutto la testimonianza già vista di Senofonte, che ha mostrato come Socrate tacciasse i rapsodi di essere una «genia vuota». La seconda sta invece in un parallelo con l’Apologia di Socrate di Platone, che ci dice molte cose sull’attività filosofica di Socrate, tra cui anche che interrogò i poeti sul significato dei loro versi e, appurando che non sapevano dargli una risposta sensata, concluse che i loro bei versi belli sono appunto ispirati da un dio e da una sorte divina. Queste convergenze non ci confermano però solo che lo Ione potrebbe riferire un’opinione socratica. Forse danno una ragione plausibile del perché Socrate fu messo a morte. Poiché questi andava a interrogare i poeti e tutti gli altri uomini, mostrando loro di non sapere nulla e, conseguentemente, di non poter guidare gli eserciti, i giovani, la città, gli Ateniesi lo uccisero per non sentire questa voce fastidiosa che, in fondo, non diceva che la verità. Socrate fu in altri termini condotto a morte per aver criticato con intelligenza chi allora non esercitava affatto l’intelligenza.
Ragionando invece insieme ancora un poco sulla possessione vissuta dall’attore, si possono trarre alcuni corollari. Un primo è derivabile “laicizzando” la prospettiva di Socrate – poiché dio potrebbe anche non esistere, o esistere ma non fare nulla. Forse la vera origine della pietà e del terrore che prende prima il poeta, poi l’attore e infine lo spettatore è quell’accadimento misterioso che chiamiamo “teatro”. Qualcosa di teatrale avviene dunque già quando il testo (o la partitura, il canovaccio, ecc.) viene scritto, senza che il suo autore se ne renda troppo conto. L’attore si assume in seguito il compito di provare a far rivivere questa esperienza e, se ci riesce, coinvolge anche lo spettatore al suo interno, portandolo fuori dal tempo e dello spazio ordinario.
Un secondo spunto può essere desunto rilevando una differenza fondamentale tra l’attrazione magnetica e la possessione. La calamita attira il ferro perché lo ingloba nel suo campo magnetico, che ha una precisa direzione e verso: il fenomeno è dunque una forma di riempimento. L’attore procede invece nella maniera opposta, pronuncia qualcosa perché privato di intelletto e pronunciandola priva altri della mente: il suo lavoro è allora una sorta di svuotamento. Il teatro accade così quando si crea un vuoto, quando si lascia spazio e respiro affinché qualcosa possa accadere.
L’ultimo spunto è fornito dalla battuta di Ione che precede il secondo monologo di Socrate, con cui dichiara di riuscire a vedere e monitorare dal palco le reazioni degli spettatori. Il punto ci mostra così che la perdita del senno implica che il rapsodo o l’attore divenga completamente inconsapevole: la sua mente lavora semplicemente ad altro, per esempio alla composizione scenica e al ritmo, lasciando che tutto il resto avvenga un po’ da sé. Questo è il paradosso dell’artista performativo: egli nello stesso tempo è vigile e sperduto, si pone in ascolto e si abbandona, controlla quanto accade e resta sorpreso. Come il filosofo egli indaga e come il folle si lascia andare, ma si tratta di un filosofo irragionevole e di un folle pieno di saggezza.
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Non è un’arte da parte tua parlare bene di Omero, come dicevo poco fa, ma una forza divina è quel-la che ti muove, come nella pietra che Euripide chiamò Magnete, i più invece Eraclea. E infatti que-sta pietra non solo attrae gli anelli, essi stessi di ferro, ma infonde anche una forza in essi, tale che a loro volta possano esercitare lo stesso potere della pietra: attrarre altri anelli. E cosi talvolta si forma una catena davvero lunga di anelli di ferro, che dipendono gli uni dagli altri; ma è da quella pietra che dipende per ognuno la forza. Nello stesso modo, anche la Musa rende, essa stessa, ispirati; poi, tramite questi ispirati, si forma una catena di altri presi da entusiasmo. Infatti tutti i poeti epici, quel-li bravi, non per arte, ma perché ispirati e posseduti recitano tutti quei bei poemi, e lo stesso i poeti melici, quelli bravi: come coloro che partecipano ai riti coribantici non danzano quando sono in senno, cosi anche i poeti melici non compongono, in senno, i loro bei canti, ma non appena muovo-no un passo seguendo l’armonia e il ritmo sono presi da furore bacchico e posseduti. Come le Bac-canti attingono miele e latte dai fiumi quando sono possedute, ma non quando sono in senno, così fa anche l’anima dei poeti melici, come essi stessi dicono. Infatti i poeti ci dicono proprio che, dopo aver attinto i loro canti da fonti che fanno colare miele, in certi giardini e valli boscose delle Muse, a noi li portano come le api, anch’essi a volo. E dicono la verità. Cosa leggera, infatti, è il poeta e alata e sacra, e incapace di poetare prima di essere ispirato e fuori di senno, la mente non più in lui. Fintanto che ne mantenga il possesso, a ogni uomo è impossibile comporre versi e dare oracoli. Poi-ché, dunque, non per arte poetano e dicono molte belle cose sui loro argomenti, come fai tu su Omero, ma per sorte divina, ognuno è capace di comporre bene solo ciò a cui la Musa lo spinge –chi ditirambi, chi encomi, chi iporchemi, chi poemi epici, chi giambi – mentre negli altri ciascuno di loro è mediocre. Non per arte, infatti, dicono queste cose, ma per una forza divina, poi-ché, se sapessero parlare bene per arte di una cosa, saprebbero parlare bene anche di tutte le altre. Per questa ragione il dio, togliendo loro la mente, li usa come servitori, come coloro che danno gli oracoli e i profeti, quelli divini: perché noi ascoltatori possiamo sapere che non sono costoro a dire cose di così alto valore, privi come sono della mente, ma è il dio stesso che parla e tramite loro esprime parole per noi (Platone, Ione, 533d-534d)
SOCRATE: E tu sai che voi rapsodi producete questi stessi effetti anche sulla maggior parte degli spettatori?
IONE: Lo so, e molto bene: infatti li osservo, ogni volta, dall’alto della pedana, e li vedo piangere e lanciare sguardi atterriti e partecipare dello stupore per le cose dette. E bisogna che io presti loro tutta la mia attenzione, perché se li dispongo al pianto, riderò io per il denaro che otterrò, se al riso, sarò io a piangere per il denaro perso.
SOCRATE: E tu sai che questo, lo spettatore, è l’ultimo degli anelli di cui io dicevo che ricevono l’uno dall’altro la forza che deriva dalla pietra Eraclea? Quello di mezzo sei tu, il rapsodo e attore, il primo il poeta stesso. Ma è il dio che attraverso tutti questi attira l’anima degli uomini ovunque voglia, facendo dipendere la forza dell’uno da quella dell’altro. E come da quella pietra, pende una catena molto lunga di coreuti, direttori di coro e assistenti direttori, appesi di lato agli anelli che dipendono dalla Musa. E un poeta dipende da una Musa, uno da un’altra – noi diciamo allora che egli è posseduto, il che è assai simile al vero: infatti è tenuto – e da questi primi anelli, i poeti, altri pendono a loro volta e sono presi da entusiasmo, l’uno ad opera di Orfeo, l’altro ad opera di Museo, ma i più sono posseduti e tenuti da Omero. Tu, Ione, sei uno di questi ultimi e sei posse-duto da Omero, e ogni volta che uno canta di un altro poeta ti metti a sonnecchiare e non trovi paro-le da dire, mentre non appena qualcuno fa risuonare un canto di questo poeta, eccoti subito sveglio, la tua anima si mette a danzare e di parole da dire sei pieno: infatti non per arte né per conoscenza tu dici ciò che dici su Omero, ma per sorte divina e possessione (Ione, 535d-536c)
Ebbene, o cittadini ateniesi, – a voi devo pur dire la verità, – questo fu, ve lo giuro, il risultato del mio esame: coloro che avevano fama di maggior sapienza, proprio questi, seguitando io la mia ri-cerca secondo la parola del dio, mi apparvero, quasi tutti, in maggior difetto; e altri, che avevano nome di gente da poco, migliori di quelli e più saggi. Ma voglio finire di raccontarvi le mie peregri-nazioni e le fatiche che sostenni per persuadermi che era davvero inconfutabile la parola dell’oracolo. Dopo gli uomini politici andai dai poeti, sì da quelli che scrivono tragedie e ditirambi come dagli altri; persuaso che davanti a costoro avrei potuto cogliere sul fatto la ignoranza mia e la loro superiorità. Prendevo in mano le loro poesie, quelle che mi parevano le meglio fatte, e ai poeti stessi domandavo che cosa volevano dire; perché così avrei imparato anch’io da loro qualche cosa. O cittadini, io ho vergogna a dirvi la verità. E bisogna pure che ve la dica. Insomma, tutte quante, si può dire, le altre persone che erano presenti, ragionavano meglio esse che non i poeti su quegli ar-gomenti che i poeti stessi avevano poetato. E così anche dei poeti in breve conobbi questo, che non già per alcuna sapienza poetavano, ma per non so che naturale disposizione e ispirazione, come gl’indovini e i vaticinatori; i quali infatti dicono molte cose e belle, ma non sanno niente di ciò che dicono: presso a poco lo stesso, lo vidi chiarissimamente, è quello che accade anche dei poeti. E in-sieme capii anche questo, che i poeti, per ciò solo che facevano poesia, credevano essere i più sa-pienti degli uomini anche nelle altre cose in cui non erano affatto. Allora io mi allontanai anche da loro, convinto che ero da più di loro per la stessa ragione per cui ero da più degli uomini politici (Platone, Apologia di Socrate, 22a-c)
[La traduzione dei due estratti dello Ione è di C. Capuccino, Filosofi e rapsodi: testo, traduzione e commento dello Ione platonico, Bologna, CLUEB, 2005. Per approfondire lo studio del dialogo, si consiglia la lettura integrale del commentario dell’autrice e le sue dense note esegetiche. Invece, il passo dell’Apologia è tratto da M. Valgimigli, A.M. Ioppolo (a cura di), Platone. Apologia di Socrate, Critone, Roma-Bari, Laterza, 2006]
Enrico Piergiacomi
Twitter @Democriteo
Non si è mai dato che uno spettatore si commuova in seguito al commuoversi di un attore.
Se lo spettatore si commuove è perché l’attore mette in atto una strategia tesa a quello scopo,
se, invece, un attore si commuove gli spettatori saranno piuttosto incuriositi, ammirati, stupìti, infastiditi, ecc.
Ma, come dice il vate dell’attore finalmente liberato dagli dei: “Non è opportuno che un attore abbandoni totalmente le sue capacità di immedesimazione”(B.Brecht)
Certo nessuno può spiegare la poesia, neanche i poeti stessi, ma se questo bastasse a provare esistenze divine…
Vedo poi con piacere che quel che Zeami chiama “incanto sottile” e Stanislavskij “centro d’attenzione”, già fu detto dal povero Ione con semplici parole.
La capacità d’esser completamente dentro a ciò che si fa e completamente fuori, tanto da monitorare palco e platea è la rara condizione che si verifica quando nella mente si fa il vuoto.
E’ vero il teatro compare quando si crea un vuoto, ma è vuoto di mente svuotata di pensieri (nel caso dell’attore direi meglio “di preoccupazioni”). Una condizione che si avvicina fortemente allo stato di meditazione recettiva, ben conosciuto dalle filosofie orientali.
Ma meditazione non è perdita di senno! D’altra parte come avrebbe potuto il povero Ione a “monitorare” il pubblico se in preda ad una possessione?
Compito del rapsodo è provare la propria onestà nonostante la finzione, ben altra cosa è farsi credere condottiero da un esercito (dove bisognerebbe essere tutt’altro che onesti!)
Tuttavia Socrate, pur mancando il bersaglio di parecchie spanne, si avvicina al vero quando dice “genìa vuota”, anche se andrebbe detto “genìa che aspira ad esser vuota”. Infatti se gli attori conoscessero e tentassero di praticare in scena quel vuoto, il teatro sarebbe un po’ meno detestato.
Un saluto e un grazie.
Claudio
Il fatto di voler afferrare la poesia intellettualmente mi fa pensare a Socrate come ad un critico teatrale in prima fila.
Se fosse possibile spiegare poesia e teatro smetterebbero di essere tali all’istante. La spiritualità che forse affascinava Socrate spettatore può essere invece la ricerca consapevole dell’attore, consapevolezza attraverso il corpo e la voce, in scena. Per qualcuno anche intellettualmente, ma non necessariamente.
Caro Claudio e cara Mia,
immaginavo che lo “Ione” avrebbe sollevato tante questioni! Si può essere o no d’accordo con quanto dice Platone (riporterà le idee del Socrate storico?), e io stesso lo sono solo in parte, ma è un dialogo di una densità straordinaria.
Fatta questa premessa, cerco di rispondere alle questioni sollevate. Dubito che le mie parole saranno risolutive.
Parto dalla questione che interessa tutti e tre, ossia quella connessa all’inspiegabilità della poesia. Intanto, sono assolutamente d’accordo con Mia, quando scrive che “se fosse possibile spiegare poesia e teatro smetterebbero di essere tali all’istante”, e con Claudio, che ha ragione a denunciare la viziosità del ragionamento che deduce l’esistenza di dio e una sua azione sugli uomini a partire dall’ispirazione poetica. Il mio modesto parere è, per il resto, che gli sforzi in parte fallimentari di Socrate di capire cosa fa Ione e – per estensione – cosa sia il teatro che a tratti il rapsodo riesce a evocare siano comunque utili per comprendere molti concetti o fenomeni correlati. Come dice Mia, il filosofo affronta per esempio la questione della consapevolezza dell’attore, per cui pone la domanda: fino a che punto l’attore è vigile sul palcoscenico? E soprattutto, su cosa dovrebbe vigilare e cosa dovrebbe lasciar succedere quasi da sé? Il mio punto è che la poesia e il teatro sono certo inspiegabili, ma che ha senso comunque indagarli razionalmente, almeno perché tale indagine aiuta l’artista performativo a interrogarsi sul / a essere più consapevole del proprio fare.
Sull’idea che l’attore commuove se non è commosso e terrorizza se non è terrorizzato, non ho da obiettare nulla. Giustifico solo la posizione di Socrate/Platone spiegando che entrambi partono da una precisa premessa epistemologica: x non può che causare x, per cui se si osserva nello spettatore y l’emozione x, allora anche il rapsodo z deve provare x. Essa porta del resto alla dottrina platonica delle idee, secondo cui l’idea del buono non può che causare il buono, e via dicendo. Nutro grandi dubbi sulla validità di questa premessa, però può forse essere utile partire comunque da essa per porre agli artisti performativi un’altra questione di metodo e di riflessione: da quale epistemologia si deve partire, per capire il teatro e il lavoro dell’attore?
C’è infine la questione dello svuotamento. Qui davvero ho paura a pronunciarmi, ritenendola al di sopra delle mie forze, per cui mi limito a ribadire che, secondo me, l’attore è in uno stato di vigilanza e nello stesso tempo di abbandono. Egli è insieme attento a tante cose (le reazioni del pubblico, il mantenimento di una composizione, il ritmo, ecc.) e ne lascia accadere altre, senza preventivarle nel proprio lavoro – se così non fosse, avremmo sempre degli spettacoli dalla forma rigida e mai l’accadimento leggero del teatro. Socrate arriva ad attribuire a Ione una possessione divina perché sopravvaluta l’importanza dello stato di abbandono, che confonde con l’incoscienza. Forse il grande filosofo avrebbe potuto evitare questo errore praticando un poco la recitazione, a cui comunque nonostante tutto era a mio avviso molto portato. Rimando la dimostrazione di questa tesi al prossimo appuntamento.
Grazie a entrambi. Mi auguro che le mie parole non siano del tutto inadeguate. A presto,
Enrico.
Ah, rileggendo i miei appunti su Tarkovskij (“Scolpire il tempo”, a cura di V. Nadai, Milano, Ubulibri, 1988, p. 74), ho trovato un passo che conferma l’idea che non c’è commozione nello spettatore, laddove l’attore è in preda alla commozione: “L’artista ha il dovere di essere imperturbabile. Egli non ha il diritto di rivelare la propria commozione, la propria partecipazione, e di esprimere direttamente tutto questo. Qualsiasi commozione provocata dall’oggetto deve essere tramutata nella serenità olimpica della forma. Solo allora l’artista potrà parlare delle cose che lo commuovono”.
Proviamo allora così:
Se si osserva nello spettatore y l’emozione x, allora il rapsodo z deve aver messo in atto l’emozionante t (dove t sta per téchne).
(Ammetto però, che in questo tentativo ci sono infiltrazioni vagamente poetiche e dunque poco consone!)
E sulla predisposizione di Socrate per la scena, mi piace pensarla come te, ma lo faccio più che altro per affetto, nei tuoi e nei suoi confronti.
Ti invito comunque (chè il mio bastiancontrariesimo mai si placa!), rispetto a Socrate attore, a pensare alle misteriose leggi “del contrario” che governano le cose del teatro.
In questo caso mi verrebbe da dire: colui che ha l’aria d’esser è possibile che non sia, mentre colui che mai diresti che possa essere, forse è.
Un saluto
Claudio
Caro Enrico,
Io non credo che interrogare razionalmente il teatro renda l’attore più consapevole sulla scena.
Fuori forse sì, ma paradossalmente in scena potrebbe essere anche il contrario, potrebbe farsi ” preoccupare” da qualcosa che sulla scena non serve per essere “libero” e”vuoto”.
Parole ambigue queste ultime, ma non meno di ” abbandono”.
L’attore, ben vigile, occupandosi di cose pratiche sulla scena, forse predispone una sorta di “rito”? Oddio, anche questa é una parola da usare con le pinze. Innanzitutto l’attore dovrebbe stare sulla scena, possibilmente spesso e con il piacere di starci. E questo non é poco.
Un abbraccio
Mia
Cara Mia e caro Claudio,
bella questa conversazione con voi due. Mi sento davvero stimolato dalle vostre repliche agguerrite.
@Claudio: la regola così riformulata va benone e abbiamo fatto un piccolo passo in avanti. Certo, un logico di professione obietterebbe qualcosa, ma sono convinto che le sue critiche non sarebbero rilevanti. Pur pensando che il teatro possa essere indagato razionalmente, penso anche che solo alcuni metodi intellettuali siano efficaci (la dialettica, l’analogia, ecc.). Tra questi, la logica non va bene, è troppo poco duttile. Mi rendo conto che è un’affermazione troppo forte, ma non posso motivarla qui come vorrei.
Sul “bastiancontrarianesimo” sono invece d’accordo. Riparleremo della predisposizione socratica alla scena nel prossimo appuntamento.
@Mia: mi fido di quanto dici, perché sei tu che lavori sul palco e non io. Ammettiamo allora almeno l’ipotesi che un’indagine razionale serva allo spettatore che vuole capire meglio cosa gli accade quando è “attraversato” dal teatro. Se è così, l’attore può almeno trarre giovamento in quanto persona che assiste agli spettacoli insieme agli altri e/o vuole capire gli effetti del suo lavoro.
In ogni caso, il punto più importante del tuo intervento è il tuo giusto avvertimento di evitare l’ambiguità nella scelta delle parole che usiamo. Sarebbe necessario individuare al più presto una terminologia condivisa e precisa: forse questi interventi possono essere utili per abbozzarne la costruzione. Mi permetto però di precisare che con “abbandono” intendevo – inadeguatamente – esprimere solo l’idea che l’atteggiamento dell’attore consapevole comprende il non preventivare tutto quello che avverrà sulla scena. Sul piano pratico, questo significa che l’attore non soffocherà stimoli, intuizioni creative o altro che gli sopravvengono mentre lavora, pur di mantenere la forma preordinata della composizione.
Di nuovo grazie a entrambi. A presto,
Enrico.